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grammatica e letteratura italiana | latina | greca

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Salsum sine salso

(IX, 430)

in LE RICETTE/ IN CUCINA CON APICIO / APPROFONDIMENTI / LETTERATURA LATINA

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Questa ricetta di Marco Gavio Apicio propone la realizzazione di un pasticcio di fegato a cui verrà data la forma di pesce: la presentazione del manicaretto ingannerà i commensali, che avranno l’impressione di mangiare un pesce… senza che ci sia del pesce!

 

SALSUM SINE SALSO

Iecur coques, teres et mittes piper aut liquamen aut salem. Addes oleum. Iecur leporis aut haedi aut agni aut pulli: et, si volueris, in formella piscem formabis. Oleum viride supra adicies.

(PESCE) SALATO SENZA (PESCE) SALATO

Cuocerai del fegato, lo triterai e unirai del pepe o del liquamen o del sale. Aggiungerai dell’olio. Il fegato (sarà) di lepre o di capretto o di agnello o di pollo: e, se vorrai, in uno stampo creerai (la forma di) un pesce. Vi aggiungerai sopra olio verde.

                                                                                                                       (traduzione di A. Micheloni)

 

I Romani apprezzavano molto il pesce, un po’ meno la carne: non stupisce, dunque, che il fegato, ingrediente principale della ricetta, sia presentato in forma di pesce. In realtà questa presentazione si addice perfettamente alla filosofia culinaria di Apicio, che sosteneva – al contrario di quello che pensiamo noi – che, se il cuoco è preparato, a tavola nessuno riconoscerà ciò che mangia. Anche questo era un modo per meravigliare i ricchi commensali a cui Apicio riservava le sue prelibatezze: doveva essere per loro una bella sorpresa scoprire che il pesce che si accingevano a gustare era in realtà del fegato (come accadeva per altre ricette, per esempio per lo stoccafisso realizzato con una purea di funghi o di fave)! Del resto il ricco Trimalcione, protagonista del Satyricon di Petronio, nel paragrafo 70 loda un cuoco proprio per questa sua capacità: Di un pezzo di lardo vi fa un colombo, di un prosciutto una tortora e di uno zampone una gallina. E per questo con la mia inventiva gli ho messo un gran bel nome, ché si chiama Dedalo.

I Romani di solito consumavano carni di pollo, di maiale, di capra e di pecora: alcuni di questi animali sono infatti citati nella ricetta di Apicio, in cui mancano – fortunatamente! – altri animali di cui essi mangiavano abitualmente le carni, come il fenicottero, la gru, il ghiro, il pavone e persino il cane e il pappagallo.

Nella ricetta il fegato, una volta tritato, viene condito con del pepe (che arriva a Roma a partire dal 100 a. C., importato dal Medio Oriente), del sale (ottenuto spesso dall’evaporazione dell’acqua di mare), dell’olio verde (cioè con olio d’oliva di prima spremitura, importato in grande quantità dalla Spagna, perché quello prodotto nel sud  Italia non era sufficiente) e del liquamen: quest’ultima salsa a base di pesce, di cui abbiamo parlato nella lezione introduttiva, può essere sostituita – dai coraggiosi che desiderano sperimentare questa ricetta – con la salsa di soia, con la Worcester, con della pasta di acciughe mescolata con erbe aromatiche o con della colatura di alici.

Questa ricetta costituisce un esempio di scrittura regolativa. Dal punto di vista formale presenta due evidenti differenze rispetto alle modalità che noi utilizziamo per la stesura di ricette: la prima è la mancanza dell’elenco degli ingredienti e dell’indicazione delle quantità da usare, del numero di persone per cui è pensata la ricetta e del tempo di preparazione; la seconda, l’utilizzo del futuro semplice laddove in italiano sono preferiti l’indicativo e l’imperativo (cuoci, trita…) o l’infinito iussivo (cuocere, tritare).

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