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grammatica e letteratura italiana | latina | greca

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Una lettera a Federico II

In PIER DELLE VIGNE / LA RETORICA / LA LETTERATURA MEDIOEVALE / IL MEDIOEVO / LETTERATURA ITALIANA

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In questa lettera Pier delle Vigne respinge con sdegno le calunnie di chi lo ha messo in cattiva luce presso l’imperatore Federico II di Svevia, cui ribadisce la propria assoluta lealtà e fedeltà.

A voi e non ad altri, o pio Cesare¹, torna a gloria e onore l’avermi reso tante volte glorioso con le vostre lettere: quasi ch’io sia degno di sentirmi glorificato dalla gloria vostra ed esultante dei vostri successi. Per сіò appunto nulla mi preme quanto l’incolumità, la fortuna e l’insigne trionfo di colui dal quale dipendo, senza la cui stima io non sono nulla, alla cui ombra vivo, esaltato ed onorato.

Fintanto che ho, dico, questa fortuna, da parte mia non posso che sentirmi obbligato al vostro beneplacito e disposto ad eseguire i vostri ordini; e l’Altissimo sa che ai vostri ordini bramo vivere e invecchiare e, se così piaccia, anche morire.

Oltre a ciò, o clementissimo tra i principi, se mi è concesso non nascondere un mio cruccio, vorrei parlare, se pure con qualche timore, del fatto che nella vostra lettera v’è una benevola espressione che mi ha sbigottito, là dove dite: “Ti raccomandiamo vivamente che, nel servirci, tu ti mostri, come al solito, scrupoloso e sollecito soprattutto dei nostri interessi, poiché, sebbene in queste incombenze ti abbiamo dato dei collaboratori, tuttavia è noto che la serenità nostra conta esclusivamente su di te”. Confesso, o signore, che in queste parole risuona una grande benevolenza nei miei riguardi, a meno che non significhino proprio l’opposto e vogliano essere un’accusa alla mia pigrizia e una sferzata alla mia negligenza. In questo caso, se c’è chi mi ha accusato di ciò, si tratta d’una lingua maledica che calunnia un innocente; e chi si compiacque di far questo, sia uomo o angelo, anche se d’uomo o d’angelo ha il nome, ha sprecato il fiato tra i figli della verità. E son certo che, per quanto vicino possa esservi colui che così mi denigra, se l’Altissimo mi concede di restare ai vostri piedi, l’iniquità contro di me dovrà chiudere la bocca.

Ma il Signore ponga fine, e presto, a queste chiacchiere, in modo da smascherare costoro, da rimuovere gli ostacoli che si frappongono tra noi, da ricondurre il padre al figlio, il benefattore e signore al suo fedele.

AA.VV., Le origini, Ricciardi, Milano – Napoli

Pier delle Vigne soggiornò per lungo tempo alla corte di Federico II, ricoprendo numerosi e prestigiosi incarichi: in quella sede egli fu infatti cancelliere, alto funzionario e giudice, fino a diventare il consigliere più potente e ascoltato dell’imperatore. L’invidia di alcuni cortigiani, che non sopportavano la stima dimostrata nei suoi confronti da Federico, gli fu però fatale: essi lo accusarono di corruzione e di tradimento, cosicché l’imperatore lo fece imprigionare a Cremona, dove fu accecato. Dante, nel canto XIII dell’Inferno, immagina di incontrarlo nella selva dei suicidi: le cronache dell’epoca ci raccontano, infatti, che Pier delle Vigne si suicidò in un’imprecisata città della Toscana credendo col morir fuggir disdegno (Inferno, XIII, 71), cioè pensando di evitare il disprezzo rivendicando la propria onestà con la morte.

La fama di Pier delle Vigne è legata anche alla sua attività letteraria: egli fu infatti autore di alcune liriche, che rientrano nella poetica della cosiddetta Scuola siciliana. Ma il suo capolavoro è senza dubbio l’Epistolario, una raccolta di lettere scritte in latino in cui egli dimostra tutta la sua preparazione in ambito giuridico e, soprattutto, retorico.

L’epistola proposta, per esempio, ci consente di vedere applicate tutte le norme che abbiamo presentato nella lezione del corso dedicata alla retorica.

Il primo paragrafo della lettera costituisce la salutatio, cioè il saluto iniziale, che solitamente conteneva, come abbiamo visto, gli epiteti e gli appellativi più altisonanti che si potevano riferire al destinatario: in questo caso, per esempio, Pier delle Vigne si rivolge a Federico II addirittura con l’invocazione o pio Cesare, che pone l’imperatore in una posizione di continuità con i grandi imperatori che lo hanno preceduto nell’illustre storia di Roma; mirano a conseguire lo stesso risultato anche l’accenno ai successi e al trionfo e, soprattutto, la figura etimologica, un espediente retorico che consiste nell’utilizzare in modo ravvicinato un vocabolo – in questo caso il termine gloria – e i suoi derivati, per enfatizzarne il valore (torna a gloria e onore l’avermi reso tante volte glorioso con le vostre lettere: quasi ch’io sia degno di sentirmi glorificato dalla gloria vostra ed esultante dei vostri successi).

Complimenti, elogi e lusinghe caratterizzano anche il secondo paragrafo, che contiene la captatio benevolentiae, cioè la ricerca della buona disposizione d’animo dell’interlocutore. Questa seconda parte si riaggancia a quanto affermato nella salutatio: la gloria dell’imperatore è così grande che essa, come una luce riflessa, giunge anche sui suoi collaboratori, che non patiscono, pertanto, la loro condizione di sudditanza, ma, al contrario, la avvertono come una fortuna. Pier delle Vigne per ben due volte si dice pronto a eseguire gli ordini del suo signore, incombenza che vorrebbe poter protrarre fino alla morte, come ben sa, addirittura, l’Altissimo, chiamato in causa come garante della sincerità, dell’affetto e del rispetto che il cancelliere nutre nei confronti di Federico.

Quanto detto dovrebbe aver ben disposto l’animo di Federico: per questo Pier delle Vigne è pronto a cominciare la narratio, cioè l’esposizione dei contenuti che intende condividere con il destinatario, a cui dedica il terzo paragrafo dell’epistola. Il motivo che lo ha spinto a scrivere la lettera è il timore di essere stato calunniato presso l’imperatore, un sospetto che deve essere presentato con estrema cautela, perché Pier delle Vigne non sa come le parole dei suoi denigratori siano state accolte da Federico. Per questo egli ritiene opportuno precisare al clementissimo tra i principi che se c’è chi mi ha accusato di ciò, si tratta d’una lingua maledica che calunnia un innocente, e chi si compiacque di far questo, sia uomo o angelo, anche se d’uomo o d’angelo ha il nome, ha sprecato il fiato tra i figli della verità. La convinzione e la forza della propria innocenza determinano la scelta di vocaboli che hanno a che fare con l’area semantica del sacro, evidente in espressioni di gusto biblico (i figli della verità, per indicare gli uomini perbene) e nella personificazione dell’ingiustizia (la lingua maledica che calunnia un innocente).

Nell’ultimo paragrafo la richiesta della petitio toglie spazio ai saluti della conclusio: questa richiesta è infatti così importante da essere posta direttamene a Dio, affinché il Signore ponga fine, e presto, a queste chiacchiere, in modo da smascherare costoro, da rimuovere gli ostacoli che si frappongono tra noi, da ricondurre il padre al figlio, il benefattore e signore al suo fedele. Il legame tra il cancelliere e il suo signore viene presentato prima in termini familiari (come quello che c’è tra un padre e un figlio, con un evidente rimando all’espressione figli della verità, usata in precedenza, che ribadisce in modo implicito l’innocenza del cancelliere) e poi addirittura religiosi (nell’espressione benefattore e signore fedele, dove il termine signore, scritto con la lettera minuscola, perché rivolto all’imperatore, richiama, con un bisticcio caro ai medioevali, il termine Signore con la lettera maiuscola, perché riferito a Dio).

L’alto livello di elaborazione formale del testo (che presenta anche un frequente utilizzo del cursus, planus, tardus e soprattutto velox) non è fine a sé stesso: scelte lessicali, perifrasi, simmetrie, artifici e abbellimenti formali hanno infatti lo scopo di aiutare chi scrive a dimostrare la correttezza e la validità di quanto afferma, poiché, secondo la mentalità medioevale, il bello è la veste del buono. La lettera di Pier delle Vigne, curata, elegante e ben strutturata, si pone dunque come la prova tangibile dell’innocenza di chi la scrive, in chiara contrapposizione alle chiacchiere grezze e ignobili dei calunniatori.

Note

1. Pio Cesare: l’epiteto è stato scelto per inserire Federico nella grande tradizione degli imperatori romani.
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