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grammatica e letteratura italiana | latina | greca

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Solitudine

in TESTI / UNGARETTI GIUSEPPE / L’ETÀ CONTEMPORANEA / LETTERATURA ITALIANA

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Questa lirica di Giuseppe Ungaretti è stata scritta, come molte altre, durante la Prima guerra mondiale, mentre il poeta, arruolato in qualità di fante, si trovava al fronte. Nel tempo essa ha subito, però, alcune trasformazioni. Vediamole insieme.

1Ma le mie urla
feriscono
come i fulmini
la fioca
5campana del cielo
e sprofondano
impaurite

Santa Maria la Longa, il 26 gennaio 1917

1Ma le mie urla
feriscono
come i fulmini
la fioca
5campana del cielo
e sprofondano
impaurite

Santa Maria la Longa il 26 gennaio 1917

Il testo è formato da un’unica strofa di pochi versi sciolti, di lunghezza varia, che, come suggerisce il Ma iniziale (sottolineato dall’allitterazione della – m presente anche nell’aggettivo possessivo mie) sembra voler dar seguito a pensieri che il poeta sta formulando tra sé e sé. Dall’annotazione apposta, come di consueto, al termine delle poesie di guerra, veniamo a sapere che Ungaretti si trova a Santa Maria la Longa, una località nella pianura friulana, lungo la strada per Gorizia, in cui venivano mandati a riposare i combattenti dopo un periodo trascorso al fronte, per cercare di attenuare le pesantissime conseguenze fisiche e psicologiche della guerra di trincea. Ma la guerra non può essere dimenticata con una semplice pausa: per questo motivo Ungaretti, sentendosi solo – come fa comprendere il titolo della lirica, che ne è dunque parte integrante -, completamente in balia di un destino di morte e di dolore, alza gli occhi verso un cielo che lo sovrasta concavo (proprio questo gli suggerisce l’immagine di una campana), indifferente al suo dolore e lontano, come dimostra il fatto che la sua voce è fioca, cioè non si fa avvertire dagli uomini. Sopraffatto dalla rabbia Ungaretti lancia delle grida (delle bestemmie?) che colpiscono il cielo con forza, come dei fulmini innaturalmente scagliati dal basso verso l’alto, lasciando il poeta tremante e impaurito per la violenza della propria reazione. Tra il gesto compiuto (le urla di protesta che, con una bella sinestesia – cioè uno scambio di sensazioni, in questo caso uditive e tattili – e con una personificazione feriscono il cielo) e le sue conseguenze (la paura per ciò che si è detto) non c’è alcuna pausa, cosicché il lettore non riesce a cogliere a pieno i due diversi stati d’animo del poeta – soldato.

Ungaretti pubblica questa lirica nel 1918, ma non è soddisfatto del risultato, perché crede che la parola poetica debba avere una forza di comunicazione altissima, che le deriva non solo dal suo significato, ma anche dal suo suono, dalla collocazione nel verso e nel componimento, dal ritmo che crea, dalle pause che la accompagnano…

E così l’anno seguente, cioè nel 1919, ripubblica la stessa lirica con qualche modifica

1Ma le mie urla
feriscono
come i fulmini
la fioca
5campana del cielo


E sprofondano
impaurite

Santa Maria la Longa, il 26 gennaio 1917

1Ma le mie urla
feriscono
come i fulmini
la fioca
5campana del cielo

E sprofondano
impaurite

Santa Maria la Longa, il 26 gennaio 1917

In questa seconda stesura il testo si articola in due strofe: il termine cielo acquista così un rilievo decisamente maggiore, non solo grazie all’allitterazione con la – c di campana e fioca, già presente nella prima stesura, ma anche grazie alla pausa che lo segue, pausa che permette sia al poeta che al lettore di rendersi conto della gravità della protesta. Con questa disposizione dei versi, inoltre, l’intera prima strofa è percorsa da un sottile gioco allitterante della lettera – f, figura retorica che, legando tra loro le parole chiave feriscono (verbo così importante da essere collocato, grazie a un enjambement, da solo nel verso), fulmini (il segno tangibile della ribellione) e fioca (che allude, come visto, all’assenza di un Dio che ascolti la sofferenza degli uomini), permette al lettore di concentrare la sua attenzione proprio sui termini che il poeta ritiene fondamentali per la comprensione del testo. L’attimo di sbigottito silenzio segnato dalla pausa tra le due strofe esalta anche le conseguenze del gesto, perché la congiunzione e lega la paura alle urla di protesta (i fulmini), richiamate, ancora una volta, dalla presenza del suono –f del verbo sprofondano.

Ma anche questa seconda versione non soddisfa Ungaretti, che decide di intervenire ulteriormente sul testo, arrivando alla stesura definitiva, quella del 1936.

1Ma le mie urla
feriscono
come fulmini
la campana fioca
5del cielo


Sprofondano
impaurite

Santa Maria la Longa, il 26 gennaio 1917

1Ma le mie urla
feriscono
come fulmini
la campana fioca
5del cielo

Sprofondano
impaurite

Santa Maria la Longa, il 26 gennaio 1917

La struttura in due strofe viene mantenuta, ma la continua ricerca di essenzialità e di sintesi espressiva induce il poeta a eliminare ciò che ritiene superfluo. Il primo elemento eliminato è l’articolo i davanti al termine fulmini: questa eliminazione dà più forza al vocabolo, perché lo rende indefinito, allontanandolo dall’interpretazione letterale; il secondo è la congiunzione e prima di sprofondano, scelta che consente di aumentare la durata del silenzio sbigottito che separa dal resto del testo le due parole – verso  finali, che non solo sanciscono l’inutilità della rivolta del poeta, ma, in quanto personificate, fanno comprendere che egli resta sbigottito e atterrito per l’enormità di quanto ha fatto e detto.

Le altre due varianti presenti, l’inversione dei termini fioca e campana e la creazione di un enjambement servono, invece, a esaltare ulteriormente l’immagine del cielo, che non solo non rasserena e consola il poeta, ma lo opprime come una cappa che lo soffoca e lo schiaccia con il suo peso, che è poi quello della guerra.

Come si può vedere dall’analisi proposta, la critica delle varianti (cioè lo studio delle correzioni e dei cambiamenti apportati da un poeta al proprio testo) consente di capire meglio il messaggio che egli intende comunicare, perché, come ha dimostrato uno dei più grandi critici letterari italiani, Gianfranco Contini, le varianti nascono sempre dal desiderio del poeta di rendere massimamente espressivi i suoi segni comunicativi. Dietro ognuno di questi cambiamenti – che nel caso di Ungaretti sono stati studiati, tra gli altri, dal critico Giuseppe De Robertis – c’è un lungo e faticoso lavoro di revisione e di rielaborazione che resta ignoto: il lettore vede, infatti, solo l’ultima stesura del testo. I critici letterari, invece, consultando carte autografe o confrontando diverse edizioni della stessa opera, possono tenere traccia di queste variazioni per spiegarne l’origine e il significato, perché, come nel testo che abbiamo preso in esame, esse impreziosiscono la lettura e favoriscono la comprensione del messaggio del poeta.

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