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grammatica e letteratura italiana | latina | greca

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Musica e poesia

in POESIA \ APPROFONDIMENTI \ LETTERATURA ITALIANA

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Da molti anni il mese di febbraio fa cantare tutta l’Italia: questo accade perché, da sempre, la musica ha avuto un posto privilegiato nella vita dell’uomo. Il filosofo greco Aristotele (384 – 322 a. C.), per esempio, le attribuisce, nella sua opera intitolata Politica, ben tre funzioni: quella educativa, la παιδεία (paidéia), quella di divertimento, la παιδιά (paidiá), e quella di riflessione intellettuale, la διαγωγή (diagoghé).

Queste funzioni possono essere assolte, totalmente o in parte, da ogni tipo di musica, ma soprattutto da quella che viene definita “canzone d’autore”, una forma musicale che ha lo scopo di esprimere sentimenti e di raccontare episodi di vita reale con un linguaggio curato e con uno stile elaborato: una canzone, insomma, che diventa una forma d’arte a tutti gli effetti, certamente avvicinabile alla poesia.

Del resto il binomio musica – poesia ha origini antichissime: già nell’antica Grecia la lira e la cetra accompagnavano i versi dei poeti, a partire da quelli degli aedi che hanno dato vita ai grandi poemi omerici.

Per comprendere il profondo legame che unisce la musica alla poesia, ho scelto due bellissime canzoni d’autore non particolarmente note, in modo che la riflessione – per chi non le conosce – possa partire dai loro versi e arricchirsi, poi, con la musica.
La prima è stata scritta dall’indimenticabile Fabrizio De André, compositore, cantante e musicista di grande talento, nato a Genova nel 1940 e morto a Milano nel 1999. Molte delle sue canzoni sono dedicate alla sua città, di cui ritraggono soprattutto i quartieri popolari, in cui vivono prostitute, ladri ed emarginati; altre raccontano invece la vita e le sue emozioni, a volte prendendo spunto proprio dal vissuto del cantante (Hotel Supramonte ricorda, per esempio, la drammatica esperienza del sequestro ad opera di banditi sardi di cui De André fu vittima, nel 1979, per lunghissimi quattro mesi, con sua moglie, la cantante Dori Ghezzi).

Il brano su cui ci soffermiamo si intitola Inverno ed è tratto dall’album Tutti morimmo a stento, uscito nel 1978.

Sale la nebbia sui prati bianchi
come un cipresso nei camposanti
un campanile che non sembra vero
segna il confine fra la terra e il cielo.

Ma tu che vai, ma tu rimani
vedrai la neve se ne andrà domani
rifioriranno le gioie passate
col vento caldo di un’altra estate.

Anche la luce sembra morire
nell’ombra incerta di un divenire
dove anche l’alba diventa sera
e i volti sembrano teschi di cera.

Ma tu che vai, ma tu rimani
anche la neve morirà domani
l’amore ancora ci passerà vicino
nella stagione del biancospino.

La terra stanca sotto la neve
dorme il silenzio di un sonno greve1,
l’inverno raccoglie la sua fatica
di mille secoli, da un’alba antica.

Ma tu che stai, perché rimani?
Un altro inverno tornerà domani
cadrà altra neve a consolare i campi
cadrà altra neve sui camposanti.

Da Le canzoni di Fabrizio De Andrè, Lato Side, Roma

Il titolo del brano ne rivela subito il contenuto: De André presenta una descrizione della stagione invernale, con tanto di nebbia, neve e luce che sembra morire, che comunicano una sensazione di tristezza e di abbandono. In realtà questa descrizione, proprio come accade in un testo poetico, rivela, all’ascoltatore attento, un significato più profondo e nascosto, che trasforma il brano in una vera e propria riflessione sulla vita.

Osserviamone la struttura. Il testo è stato suddiviso in strofe, che sono in stretto rapporto tra loro: dopo ogni strofa che descrive il paesaggio naturale si trova infatti sempre un’altra strofa in cui De André, per mezzo di un ritornello, invita l’ascoltatore a comprendere il sottile legame che unisce la vita dell’uomo a quella della natura. Comprendere questo legame è di fondamentale importanza per riuscire a sopravvivere ai mali e alle sofferenze che la vita ci presenta, perché esso è in grado di fornire un barlume di speranza: come l’inverno ricopre tutto con la sua neve, facendo pensare alla morte, così la vita pare sommergere l’uomo di problemi e di difficoltà, che fioccano su di lui facendolo soffrire; ma proprio come la neve si scioglierà, anche il dolore se ne andrà domani e rifioriranno le gioie passate col vento caldo di un’altra estate.

La possibile lettura connotativa di Inverno, propria del linguaggio della poesia, è suggerita dai numerosi espedienti poetici che l’autore ha usato nella stesura del brano.
Partiamo dai versi: non solo molti di loro sono riconoscibili come versi della lirica italiana (soprattutto decasillabi ed endecasillabi) ma essi sono spesso anche uniti tra loro, proprio come accade in poesia, da giochi di rime (rimani:domani, fatica:antica), e assonanze (campi:camposanti, vero:cielo), che ne rivelano il tessuto poetico.
Nella struttura dei versi un ruolo importante è svolto anche dagli enjambement, che, spezzandoli, consentono a De Andrè di mettere in primo piano le parole su cui vuole far soffermare l’attenzione dell’ascoltatore. È ciò che succede, per esempio, nella penultima strofa, in cui l’enjambement separa sia il soggetto terra dal suo verbo, dorme, sia il complemento oggetto la sua fatica dal suo complemento di specificazione di mille secoli, portando in primo piano, a inizio verso, due espressioni – dorme e di mille secoli – che vogliono sottolineare l’eterno alternarsi delle stagioni che vede la morte e il sonno invernali perpetuamente sconfitti dalla rinascita che regala la primavera.

Del resto il testo è completamente basato su una figura retorica, la metafora, che lega la vita e la morte alle stagioni: l’inverno-morte, con il suo corredo di cipresso, camposanti, campanile, teschi di cera – tutti sottolineati anche dall’allitterazione della lettera c – prima o poi dovrà sottostare al ritorno dell’amore, che ci passerà vicino nella stagione del biancospino. Questo verso è costruito sfruttando un’altra figura retorica, la personificazione, che presenta la natura come un essere animato: negli altri versi la terra è stanca e dorme, l’inverno raccoglie la fatica, la neve consola i campi…

L’elaborata costruzione di questi versi si giustifica solo, come detto, con il desiderio, da parte dell’autore, di offrire all’ascoltatore qualcosa in più di parole e musica. Lo stesso De André ha affermato che la rima, nelle sue canzoni, “nasce dal bisogno spontaneo di creare, già nei versi, un’unità armonica, un effetto sonoro autonomo e indipendente dalla melodia cantata” e che “ciò è particolarmente utile nel caso in cui di una canzone si voglia privilegiare il contenuto: le parole in cui le sillabe siano assonanti o rimate contribuiscono a far rimanere i versi più impressi”. E allora l’ascoltatore attento non potrà non accorgersi dello scarto che c’è tra due versi di questa canzone: il ritornello Ma tu che vai, ma tu rimani, diventa infatti, nell’ultima strofa, Ma tu che stai, perché rimani?. La sostituzione di vai con stai e dell’invito a rimanere con il dubbio sulla permanenza fanno intendere che la speranza a volte lascia spazio al dubbio e all’incertezza, alla sofferenza e alla paura, perché il bisogno di serenità, di amore e di calore, se disatteso troppo a lungo, ci fa cadere in un inverno del cuore che il tempo non riesce a riscaldare con la semplice promessa di una felicità che verrà. E a questo punto vi invito ad ascoltare il brano, perché lo struggente suono della tromba fa comprendere fin dall’inizio che la malinconia dell’inverno avrà la meglio, per De André, sulla speranza della primavera…

Fabrizio De Andrè - Inverno - YouTube by francesca49
Per sfuggire al gelo dell’inverno non resta che affidarsi all’amore, un sentimento che ha più volte cantato il grande Gino Paoli. Paoli, nato nel 1934 a Monfalcone, ha scritto e interpretato brani che sono diventati dei classici della musica italiana e che sono stati tradotti in molte lingue: possiamo citare, a puro titolo di esempio, Il cielo in una stanza, La gatta, Che cosa c’è, Senza fine, Sapore di sale, Quattro amici… Paoli ha anche collaborato con numerosi musicisti e ha composto alcune colonne sonore, per esempio la bellissima Una lunga storia d’amore per il film Una donna allo specchio, con Stefania Sandrelli. Vive con un proiettile nel cuore, ricordo del tentato suicidio di molti anni fa.

Leggiamo il testo di Averti addosso, tratta dall’omonimo album uscito nel 1984.

Se non so dire cosa sento dentro
come un cieco come un sordo,
se non so fare quel che si deve fare
come una scimmia, come un gatto,
se non so amare come si deve amare
come un bambino, come un cretino,
se non so dare come una tasca vuota
come un problema ormai risolto.
Averti addosso
sì, come una camicia come un cappotto
come una tasca piena come un bottone
come una foglia morta come un rimpianto.
Averti addosso
come le mie mani, come un colore,
come la mia voce, la mia stanchezza
come una gioia nuova, come un regalo.
E se il mio cuore vuole essere una bocca
che ti cerca e che ti inghiotte
così mi porto dentro la tua vita
questa canzone mai finita.
Averti addosso
sì, come una camicia come un cappotto
come una tasca piena come un bottone
come una foglia morta come un rimpianto.
Averti addosso
come le mie mani, come un colore,
come la mia voce, la mia stanchezza
come una gioia nuova, come un regalo.
Averti addosso
come la mia estate di San Martino
come una ruga nuova, come un sorriso
come un indizio falso, come una colpa.
Averti addosso
come un giorno di sole a metà di maggio
che scalda la tua pelle e ti scioglie il cuore
e che ti dà la forza di ricominciare.
Averti addosso
averti insieme
restare insieme, volerti bene.
Averti addosso
averti insieme
restare insieme, volerti bene.

Da Averti addosso, Messaggerie Musicali / CGD

Paoli si rivolge, in questo brano, alla donna di cui è innamorato: la sua presenza è così forte e intensa che può essere descritta e raccontata all’ascoltatore solo attraverso una lunga serie di esempi.

L’apparente semplicità del brano non deve trarre in inganno: anche in questo caso ne è infatti possibile una lettura connotativa, suggerita dai numerosi espedienti poetici che il cantautore usa nella scrittura. Averti addosso può infatti essere considerata una lunga strofa di versi liberi, che sono però spesso legati tra loro da rime (vita:finita) e assonanze (insieme:bene) che uniscono parole dense di significato: esse fanno comprendere che, se l’innamorato non potrà stare insieme alla donna che ama, la sua vita sarà finita.

La veridicità di questa ipotesi viene sottolineata anche per mezzo dell’utilizzo dell’anafora della congiunzione ipotetica se, che caratterizza la prima parte del brano: essa evidenzia la difficoltà che spesso s’incontra nel momento di esprimere i propri sentimenti, quando l’incapacità di esternarli come si vorrebbe fa sentire incompleti (di qui il richiamo al cieco e al sordo, privati di sensi fondamentali per la vita), senza raziocinio (da cui deriva il riferimento agli animali, la scimmia e il gatto) e del tutto inadeguati, al pari di un bambino o di un cretino.
È sempre l’anafora, subito dopo, a spiegare il motivo di tanta difficoltà: quell’averti addosso che scandisce i versi successivi, entrando con una forza sempre maggiore nell’orecchio dell’ascoltatore, dà infatti la misura di un amore che occupa ogni momento e ogni luogo della vita dell’innamorato.

Questo concetto è fortemente ribadito attraverso la figura retorica della similitudine, che crea l’architettura di tutto il pezzo: essa alterna riferimenti positivi (per esempio come un giorno di sole a metà di maggio, come un sorriso…) e riferimenti negativi (per esempio come una ruga nuova, come un indizio falso, come una colpa). È proprio in questi paragoni che si cela il vero messaggio di quella che pare una dedica d’amore e che invece è un’intensa riflessione sulla forza costruttrice e distruttrice di un sentimento che solleva come una gioia nuova e che schianta come una colpa, che salva come un problema ormai risolto e che lascia come una foglia morta, che riscalda come un cappotto e che gela come un indizio falso, che sorprende come un regalo e che delude come un rimpianto: al cantautore non resta che osservare che la sua canzone non è mai finita, perché ogni amore, ogni vero amore, fa correre al cuore il rischio di diventare una bocca che ti cerca e che ti inghiotte. Il fatto che questo concetto sia espresso non per mezzo di una similitudine, come accade nel resto del brano, ma con l’avvicinamento metaforico del termine cuore a una bocca che inghiotte, non è certamente casuale: per mezzo di questa variazione Paoli invita l’ascoltatore a riflettere sulla necessità di imparare a dominare l’urgenza, la prepotenza e la potenza di questo sentimento, perché esso passi, come evidenzia la ripetizione dei versi finali del brano, da un averti addosso a un averti insieme, perché solo in una vera, piena e totale condivisione l’amore cessa di essere un possesso e diventa un comune cammino verso il bene.

E la musica, nella potenza del suo crescendo, non fa che sottolineare la forza e l’intensità di questo messaggio. Buon ascolto!

Gino Paoli - Averti Addosso - YouTube by<br />
Polonotrocchio65

Note

1. Greve: pesante.

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