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grammatica e letteratura italiana | latina | greca

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Il paradosso nella prosa

in PROSA \ APPROFONDIMENTI \ LETTERATURA ITALIANA

IL SIGNOR VENERANDA…

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Ho conosciuto il signor Veneranda in un sussidiario delle scuole elementari e ripenso a lui ogni volta che mi capita di ascoltare certi dibattiti televisivi in cui i partecipanti, pur di difendere la propria opinione, si incaponiscono su quello che affermano, arrivando a negare persino l’evidenza…

Il papà del signor Veneranda si chiamava Carlo Manzoni. Nacque a Milano nel 1909 e vi morì nel 1975; il suo primo impiego fu presso uno studio di architettura: quando però esso chiuse, si ritrovò senza lavoro. Decise così di coltivare le sue passioni: il disegno, il fumetto e la scrittura. Sottopose i suoi lavori alla casa editrice Rizzoli, che proprio in quel periodo stava progettando di dar vita a una rivista satirica, il Bertoldo – che fu poi pubblicata, come bisettimanale, dal 1936 al 1943 – con cui ben presto Manzoni cominciò a collaborare. Dal 1945 si aggiunse la collaborazione con un altro settimanale umoristico, il Candido, nato, come il Bertoldo, per dissacrare e sbeffeggiare la società del tempo. Manzoni si dedicò anche alla scrittura di romanzi e all’attività di illustratore; fu collaboratore e autore di trasmissioni radiofoniche e di programmi televisivi.

Fu proprio per le pagine dei periodici che nacque il personaggio del signor Veneranda, un ometto apparentemente insignificante, ma in realtà pedante, pignolo e attaccabrighe, protagonista di numerosi racconti brevi. Degno di rispetto fin dal nome, il signor Veneranda si aggira per Milano vivendo situazioni che partono dalla quotidianità e sfociano ben presto nell’assurdo.

Il suo tratto caratterizzante è una logica infallibile: nei “botta e risposta” dei racconti di cui è protagonista, Veneranda riesce sempre e comunque a trovarsi dalla parte della ragione. Una ragione, però, che è completamente priva di buon senso e che si basa esclusivamente sulla decontestualizzazione di domande e risposte, corrette e veritiere se lette a sé, risibili e inopportune se ricollocate nel contesto di appartenenza.

È quello che succede, per esempio, nel racconto intitolato La chiave.

Il signor Veneranda si fermò davanti al portone di una casa, guardò le finestre buie e spente e fischiò più volte come se volesse chiamare qualcuno.
A una finestra del terzo piano si affacciò un signore.
“È senza chiave?”, chiese il signore gridando per farsi sentire.
“Sì, sono senza chiave”, gridò il signor Veneranda.
“E il portone è chiuso?”, gridò di nuovo il signore, affacciato.
“Sì, è chiuso”, rispose il signor Veneranda.
“Allora le butto la chiave”.
“Per fare cosa?”, chiese il signor Veneranda.
“Per aprire il portone”, rispose il signore affacciato.
“Va bene”, gridò il signor Veneranda, “se vuole che apra il portone, butti pure la chiave”.
“Ma lei non deve entrare?”.
“Io no. Cosa dovrei entrare per fare?”.
“Ma non abita qui, lei?”, chiese il signore affacciato, che cominciava a non capire.
“Io no”, gridò il signor Veneranda.
“E allora perché vuole la chiave?”.
“Se lei vuole che le apra il portone dovrò pure aprirlo con la chiave. Il portone non posso mica aprirlo con la pipa, le pare?”.
“Io non voglio aprire il portone”, gridò il signore affacciato, “io credevo che lei abitasse qui: ho sentito che fischiava”.
“Perché, tutti quelli che abitano in questa casa, fischiano?”, chiese il signor Veneranda, sempre gridando.
“Se sono senza chiave, sì!”, rispose il signore affacciato.
“Io sono senza chiave”, gridò il signor Veneranda.
“Insomma si può sapere che avete da gridare? Qui non si può dormire”, urlò un signore affacciandosi a una finestra del primo piano.
“Gridiamo perché quello sta al terzo piano e io sto in strada”, disse il signor Veneranda, “se parliamo piano non ci si capisce”.
“Ma lei cosa vuole?”, chiese il signore affacciato al primo piano.
“Lo domandi a quello del terzo piano cosa vuole”, disse il signor Veneranda, “io non ho ancora capito: prima vuol buttarmi la chiave per aprire il portone, poi non vuole che apra il portone, poi dice che se io fischio debbo abitare in questa casa. Insomma, io non ho capito. Lei fischia?”.
“Io? Io no… perché dovrei fischiare?”, chiese il signore affacciato al primo piano.
“Perché abita in questa casa”, disse il signor Veneranda, “l’ha detto quello del terzo piano che quelli che abitano in questa casa fischiano! Be’, ad ogni modo non mi interessa, se vuole può anche fischiare”.
Il signor Veneranda salutò con un cenno del capo e si avviò per la sua strada brontolando che quello doveva certamente essere una specie di manicomio.

Da Carlo Manzoni, Il signor Veneranda, Rizzoli, Milano, 1949

Il signor Veneranda passeggia fischiettando; un tizio si affaccia a una finestra e chiede se per caso sia senza chiave. Da questo semplice spunto quotidiano Manzoni trae il materiale per creare un dialogo in cui le domande e le risposte, scollegate da ciò che precede e segue, sono, come detto, perfettamente logiche, consequenziali e sensate: una volta riconnesse le une alle altre, esse creano però un paradosso1 e arrivano addirittura al parossismo2 della scena finale, in cui il signor Veneranda si allontana risentito e brontolando tra sé e sé. Del resto Veneranda ha tutte le ragioni: l’inquilino del terzo piano non gli ha chiesto se vuole entrare, ma se è senza chiave. Che cosa avrebbe dovuto rispondere il povero signor Veneranda, se non “sì”?

La sua dialettica inattaccabile e la sua logica annientano qualsiasi obiezione di chi ha la sfortuna di avere a che fare con lui, come il povero cameriere di un altro racconto…

“Vorrei un caffè…”
Glielo faccio subito, si affrettò il cameriere.
“Mi fa subito cosa?”.
“Il caffè che ha appena ordinato”.
“Io non ho ordinato un bel niente. Ho semplicemente detto che vorrei un caffè, come semplice desiderio, ma non posso prenderlo, perché mi fa male al cuore, ha capito?”.
E se ne andò via imprecando contro i camerieri imbecilli.

Da Carlo Manzoni, Il signor Veneranda, Rizzoli, Milano, 1949

Questo tipo di comicità nasce non solo dal desiderio di sbeffeggiare la società del tempo ma anche da quello di elevare a sistema l’assurdo e il puro arzigogolo intellettuale. Manzoni, insomma, vuole mettere in luce il potere della parola, che, se utilizzata come strumento di sopraffazione, è in grado di avere la meglio anche sull’evidenza, soprattutto in una società in cui valori e grandi ideali cominciano a incrinarsi.

Per la loro brevità, per la semplicità e per la predominanza della struttura dialogica questi racconti hanno avuto grande fortuna nelle scuole, ma non solo. Negli anni ’60, per esempio, un celebre comico, Macario, ha interpretato numerose scenette e sketch pubblicitari ispirati al signor Veneranda (https://youtu.be/4sNzSz7MlEE). Non è facile, invece, trovare una copia di questo libro, anche se per fortuna il web mantiene traccia dei suoi racconti.

Note

1. Il termine paradosso – che nella forma paradossa, poi decaduta, compare nella nostra lingua dalla prima metà del 1500 – deriva dal greco παράδοξος (parádoksos), composto dalla preposizione παρά (pará), “contro”, e il sostantivo δόξα (dóksa), “opinione”. Viene usato per indicare un’affermazione o una tesi che, nonostante sia contraria all’esperienza comune, al buon senso e alla verosimiglianza per il suo contenuto o per la forma in cui è espressa, si rivela apparentemente fondata e condivisibile. Proprio per questo esso risulta audace e sorprendente.
Il paradosso è spesso usato in letteratura per esasperare affermazioni e situazioni, alla ricerca di un effetto comico.

2. Il termine parossismo, che compare nella nostra lingua fin dalla metà del 1300, deriva dal greco παροξυσμός (paroksusmόs), che significa “aumento, eccitazione”. Esso indica una condizione di eccitazione emotiva, determinata da una forte tensione psicologica o da un eccesso di nervosismo.

…e LORD BRUMMEL

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Un altro strano personaggio su cui è interessante soffermarci è Lord Brummel, che merita certamente l’attenzione di un mondo, come il nostro, che vive – troppo spesso – di apparenza.

Lord Brummel è descritto dalla penna di Gino Cornabò, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Achille Campanile. Nato a Roma nel 1899 e morto a Lariano nel 1977, Campanile è stato uno dei più grandi scrittori umoristi italiani del Novecento: i titoli di alcuni suoi romanzi sono addirittura diventati dei modi di dire (è il caso di Agosto, moglie mia non ti conosco, uscito nel 1930 o de Il povero Piero, uscito nel 1959). Anche lui, come Manzoni, affiancò all’attività di scrittore la stesura di trasmissioni televisive e di testi teatrali.

In uno dei suoi racconti, tratto dalla raccolta intitolata Vita degli uomini illustri, Campanile presenta George Bryan Brummel, nato a Londra nel 1778 e morto nel 1840. Brummel, inventore del frac e del cilindro, era considerato l’uomo più elegante di Londra, tanto da diventare il prototipo del dandy, un individuo che si distingue dagli altri perché eccezionalmente raffinato nell’abbigliamento, nei gusti e nei comportamenti.

Leggiamo, dunque, Lord Brummel o del non farsi notare.

Lord Brummel, che dell’eleganza aveva fatto la propria ragione di vivere, aveva di essa un famoso concetto: la suprema eleganza consiste nel vestire in modo che non si venga notati. Donde1, la sua notorietà.
Si sa che quando un amico, incontrandolo, gli diceva: «Come siete elegante», l’elegantissimo Lord esclamava sgomento: «Mi si vede forse qualche cosa?», e correva a cambiarsi. È incredibile le pene che provava quando nelle cronache mondane leggeva: «Notato tra i presenti Lord Brummel». Ne faceva un casus belli2. Era tale la sua eleganza che a lungo andare i cronisti mondani finirono per scrivere nei resoconti dei ricevimenti e delle feste aristocratiche: “Non notato, fra gli intervenuti, Lord Brummel, benché ci risultasse presente”.
Ormai tutti sapevano che l’eleganza di Brummel consisteva in questo e – come sempre accade – anch’egli ebbe imitatori. Talché3 spesso nelle riunioni degli elegantissimi i cronisti dovevano scrivere: “In questa festa mondana non siamo riusciti a notare nessuno, tanto erano eleganti tutti, di quella speciale eleganza che consiste nel non farsi notare”.
Naturalmente, anche fra gli imitatori, Lord Brummel era quello che meno si faceva notare. Nessuno riuscì mai a uguagliarlo in quest’arte difficile e raffinata. “Non notato nessuno” scrivevano sovente i cronisti; “quanto a Lord Brummel, addirittura impossibile scoprirlo”. Quando l’elegantissimo s’accorse che tutti più o meno l’imitavano su questo terreno, riuscì a batterli con mezzi talvolta sleali. Un giorno, per esempio, in una festa a Corte, per non essere notato si nascose sotto una tavola.
«Che fa, Vostro Onore, qui?» gli chiedevano i camerieri.
E lui: «Non mi tradite. Sono qui per non farmi notare».
Giunse a dei travestimenti. Nelle feste di dame si vestì talvolta da donna per passare inosservato. Se faceva il suo giro di beneficenza tra i poveri del rione, per non essere notato si vestiva da pezzente.
Quando s’accorse che con questa storia di non farsi notare era diventato celebre, fu per lui una mazzata sul capo. Dovunque andava, sentiva mormorare:
«Quello è Lord Brummel. Guarda, guarda come non si nota!»
E tutti se l’additavano bisbigliando:
«È straordinario, non si nota affatto».
Quando usciva di casa, la folla si stringeva intorno a lui per ammirare l’uomo che non si notava. Codazzi di gente lo seguivano attraverso la città per godere lo spettacolo di Lord Brummel che passava inosservato.
Questo fu il supremo trionfo dell’eleganza di Lord Brummel intesa a non dare nell’occhio. I cronisti scrivevano: “Notato, per il modo come riusciva a non farsi notare, Lord Brummel”.
Brummel, però, non era felice. Deperiva. Non sapeva più come fare per non essere notato. Finì per non uscire più di casa.
Ma i familiari l’osservavano. Dava nell’occhio con quello starsene tappato in casa per non essere notato. Giunse a restare in letto, col capo sotto le coltri4. La mattina il vecchio servitore gli portava la cioccolata: dov’è andato? Non c’è. Il letto presentava un rigonfiamento sospetto. Eccolo! Lord Brummel, zitto, lasciava palpeggiare e non si muoveva. Il servitore tirava via le coperte e Brummel appariva rannicchiato.
«Maledetto» borbottava «mi ha notato».
Vedendo che non riusciva a non farsi notare, s’ammalò di crepacuore.
Il medico lo notò.
Morì. La cosa non passò inosservata: fu chiuso in una cassa.
Per disposizione testamentaria, Lord Brummel, dando ancora un’ultima prova di buon gusto, aveva voluto che il funerale passasse inosservato.
La cosa incuriosì talmente che tutta Londra era lì a vedere come riusciva bene a passare inosservato.

Da A. Campanile, Vite degli uomini illustri, Rizzoli, Milano

Lo scrittore greco Plutarco (46 – 127 d. C.) nelle sue Vite degli uomini illustri aveva elogiato le qualità e le virtù di grandi uomini, perché potessero servire da esempio e ispirare grandi azioni; Campanile, nelle sue Vite degli uomini illustri, racconta invece le biografie di uomini famosi per mettere in luce le incongruenze e le contraddizioni dei loro comportamenti, che li rendono decisamente ridicoli. Lord Brummel risulta infatti pateticamente ridicolo nel tentativo di passare inosservato per mettere in pratica le sue strambe teorie in fatto di eleganza e di moda (la suprema eleganza consiste nel vestire in modo che non si venga notati): come accade per il signor Veneranda, la vicenda che lo vede protagonista evolve in modo paradossale, lasciando stupito e perplesso il lettore, che si aspettava, dal titolo della raccolta, la celebrazione di un uomo speciale. Questo accade perché Campanile, con il racconto di questi comportamenti risibili, persegue lo stesso scopo di Manzoni: dimostrare l’assurdità della vita umana, in questo caso caratterizzata da un’infelicità e da un dolore che gli uomini si procurano con le loro stesse debolezze.

A volte la comicità di Campanile, nella sua ricerca dell’effetto paradossale, diventa addirittura fulminante: è il caso delle sue celebri Tragedie in due battute, da cui proponiamo quella ispirata a una famosa tragedia greca di Sofocle (496 – 406 a. C.), Edipo a Colono5.

EDIPO A COLONO

Personaggi: UNA SENTINELLA; UN MESSO

Di fronte alle mura della ferrigna6 Tebe. Il grande portone di bronzo è sprangato. Dietro, sui bastioni, la sentinella va avanti e indietro. Il messaggero, appena arrivato, bussa al portone.

UN MESSO: C’è Edipo?
UNA SENTINELLA: No, è a Colono.
(Sipario)

Da A. Campanile, Tragedie in due battute, Rizzoli, Milano

Il contrasto tra le parole spese per l’ambientazione della tragedia nella didascalia iniziale, scritta in corsivo (che si dilunga nel fornire dettagli, anche per mezzo di parole altisonanti come ferrigna), e l’effettiva durata della tragedia stessa, che si conclude anzitempo per l’assenza del protagonista, crea un indubbio effetto comico, che ancora una volta induce a riflettere sull’importanza relativa da assegnare alle cose…

Per perseguire al meglio l’obiettivo di far riflettere sulla vita con il sorriso sulle labbra, entrambi gli autori si avvalgono, nei loro scritti, di uno stile rapido e asciutto, che deriva da

un lessico di livello medio, con qualche puntata verso l’alto (imprecare al posto del più comune brontolare nei racconti di Manzoni, il latinismo casus belli di Campanile) o verso il basso (il mica usato da Manzoni e le espressioni una mazzata sul capo, tappato in casa, fortemente colloquiali, di Campanile)

la presenza di figure retoriche semplici, come la ripetizione, del termine chiave per Manzoni e di aggettivi, verbi e sostantivi derivati dal verbo notare (notato, notorietà, non venir notati, non notato, non farsi notare…) per Campanile

una sintassi caratterizzata da frasi brevi e poco articolate, che determinano un ritmo narrativo estremamente vivace, a tratti addirittura fulminante, come risulta particolarmente evidente nel racconto di Campanile, in cui abbondano periodi costituiti dal solo verbo (deperivanon c’èmorì…) o addirittura di tipo nominale (senza il verbo, come Donde, la sua notorietà).

Note

1. Donde: da qui.

2. Casus belli: occasione per una guerra; è un’espressione latina.

3. Talché: cosicché.

4. Coltri: coperte.

5. Colono è il nome di un demo (quartiere) della città di Atene.

6. Ferrigna: costruita con il ferro.

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