I bambini e la guerra
in POESIA \ APPROFONDIMENTI \ LETTERATURA ITALIANA
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Il 2023 non si è certamente chiuso nel migliore dei modi e purtroppo anche il 2024 si è aperto con molteplici scenari di guerra. Tra coloro che patiscono maggiormente le conseguenze di questo male che la Storia non riesce a eliminare ci sono certamente i bambini, vittime innocenti e indifese della stupidità umana.
I poeti non possono certamente restare indifferenti di fronte agli sguardi persi e alle sofferenze di chi si affaccia speranzoso alla vita. E così ecco sgorgare, dalle loro penne, versi di grande bellezza, pieni di dolore e di rabbia, di compassione e di affetto…
Nazim Hikmet, per esempio, ha voluto ricordare la tragedia di Hiroshima – la città del Giappone su cui il 6 agosto 1945 gli americani sganciarono una bomba atomica – proprio con le parole di una bambina. Nato nel 1902 a Salonicco, Hikmet è vissuto per parecchio tempo a Mosca; nel 1928 si è trasferito in Turchia, dove si è dedicato al giornalismo, al teatro e al cinema. Nel 1938 è stato condannato a ventotto anni di carcere per propaganda comunista e opposizione al regime; le pressioni internazionali hanno determinato la sua liberazione dopo dodici anni di reclusione. Nel 1950 ha ricevuto il premio Nobel per la pace; è morto a Mosca nel 1963. Le sue opere sono state tradotte in più di cinquanta lingue.
Hikmet parte da una certezza: i bambini dovrebbero essere sempre felici e mangiare lo zucchero. Dovrebbero, perchè invece la guerra li uccide e distrugge per sempre i loro semplici sogni, come ci racconta La bambina di Hiroshima…
1Apritemi sono io…
busso alla porta di tutte le scale
ma nessuno mi vede
perché i bambini morti nessuno riesce a vederli.
5Sono di Hiroshima e là sono morta
tanti anni fa. Tanti anni passeranno.
Ne avevo sette, allora: anche adesso ne ho sette
perché i bambini morti non diventano grandi.
Avevo dei lucidi capelli, il fuoco li ha strinati 1,
10avevo dei begli occhi limpidi, il fuoco li ha fatti di vetro.
Un pugno di cenere, quella sono io
poi il vento ha disperso anche la cenere.
Apritemi; vi prego non per me
perché a me non occorre né il pane né il riso:
15non chiedo neanche lo zucchero, io:
a un bambino bruciato come una foglia secca non serve.
Per piacere mettete una firma,
per favore, uomini di tutta la terra
firmate, vi prego, perché il fuoco non bruci i bambini
20e possano sempre mangiare lo zucchero.
Da N. Hikmet, Poesie, Editori Riuniti, Roma
1Apritemi sono io…
busso alla porta di tutte le scale
ma nessuno mi vede
perché i bambini morti nessuno riesce a vederli.
5Sono di Hiroshima e là sono morta
tanti anni fa. Tanti anni passeranno.
Ne avevo sette, allora: anche adesso ne ho sette
perché i bambini morti non diventano grandi.
Avevo dei lucidi capelli, il fuoco li ha strinati1,
10avevo dei begli occhi limpidi, il fuoco li ha fatti di vetro.
Un pugno di cenere, quella sono io
poi il vento ha disperso anche la cenere.
Apritemi; vi prego non per me
perché a me non occorre né il pane né il riso:
15non chiedo neanche lo zucchero, io:
a un bambino bruciato come una foglia secca non serve.
Per piacere mettete una firma,
per favore, uomini di tutta la terra
firmate, vi prego, perché il fuoco non bruci i bambini
20e possano sempre mangiare lo zucchero.
Da N. Hikmet, Poesie, Editori Riuniti, Roma
La bambina che pronuncia questi versi non ha un nome, perché possa rappresentare la voce di tutti i bambini che, come lei, furono vittime della tragedia di Hiroshima. Per questo non si può non pensare, tra gli altri, alla piccola Sadako Sasaki, che nacque a Hiroshima il 7 gennaio 1943. Il giorno in cui scoppiò la bomba atomica Sadako aveva poco più di due anni: l’esplosione la scaraventò fuori di casa, ma restò miracolosamente illesa.
A 11 anni Sadako scoprì di essere malata di leucemia, una delle patologie più frequentemente indotte dall’esposizione alle radiazioni della bomba. Mentre si sottoponeva alle cure in ospedale, un’amica le raccontò una leggenda: se fosse riuscita a creare 1000 gru con l’origami, l’arte giapponese di piegare la carta, avrebbe visto avverarsi tutti i suoi desideri.
Quando morì, il 25 ottobre 1955, Sadako aveva realizzato 644 gru. I suoi amici hanno voluto ricordarla con un monumento che si trova nel Parco della pace di Hiroshima, inaugurato nel 1955, in cui si legge: “Questo è il nostro grido. Questa è la nostra preghiera. Pace nel mondo”2.
In questa poesia, dunque, una bambina che vuole ricordare Sadako (e le altre vittime innocenti della guerra) bussa alla porta di tutte le scale. Ella chiede di aprire – per ben due volte, con un’anafora – agli uomini di tutta la terra. Questi uomini (che, citati indirettamente già nella prima strofa, compaiono in modo diretto nell’ultima) non riescono però a vederla, perché i bambini morti nessuno riesce a vederli.
La bambina prova allora a presentarsi, raccontando la sua breve vita per mezzo di immagini, spesso di tipo oppositivo: è morta bruciata a sette anni a Hiroshima, dove è nata, e ora di lei non resta nulla, perché il fuoco, che ha fatto scempio del suo corpo, l’ha ridotta a un mucchietto di cenere disperso dal vento. Per questo non le serve nulla di tutto ciò che attiene alla vita (pane e riso, per il sostentamento, e zucchero, per renderla più dolce): quello che le serve è solo una firma, che possa allungare la petizione di tutti gli uomini che ricusano la guerra e amano la pace, metaforicamente rappresentata dalla parola zucchero, che chiude la lirica con una dolce nota di speranza.
La poesia di Hikmet è strutturata come un’accorata preghiera, a cui è difficile restare indifferenti: gli spazi bianchi che separano le strofe creano dei momenti di silenzio che invitano il lettore a soffermarsi su quanto ha appena sentito e a meditare sul messaggio che la bambina vuole fargli pervenire. L’importanza di questo messaggio è tale che il poeta si esprime, per poter essere compreso da tutti, con un linguaggio facile e piano: di qui la scelta di utilizzare, tra le figure retoriche, quella più semplice, la similitudine (un bambino bruciato come una foglia secca).
In un’altra sua celebre poesia, intitolata Nasceranno da noi uomini migliori, Hikmet scrive:
sarà migliore
di chi è nato
dalla terra,
5dal ferro e dal fuoco.
sarà migliore
di chi è nato
dalla terra,
5dal ferro e dal fuoco.
La terra, il ferro e il fuoco sono, come sempre accade nella poesia, parole polisemiche: esse alludono infatti alla morte, che ha coperto di terra i corpi di chi ha perso la vita in guerra, vittima del ferro (una metonimia per indicare le armi) e del fuoco. Hikmet si augura, proprio come nella chiusa della lirica che ha per protagonista la bambina di Hiroshima, che le generazioni che hanno vissuto la guerra possano essere migliori delle precedenti, avendo sperimentato sulla propria pelle gli orrori di cui essa è capace.
Anche Primo Levi coltiva nel cuore la speranza che chi ha visto la guerra e ha conosciuto le persecuzioni possa diventare un prezioso testimone ed educare le generazioni future. Levi nacque nel 1919 a Torino, in una famiglia della ricca borghesia ebraica. Nel 1941 si laureò in chimica; allo scoppio della seconda guerra mondiale decise di entrare a far parte delle formazioni partigiane che militavano in Valle d’Aosta. Catturato dai tedeschi, fu internato nel campo di concentramento di Auschwitz: la sua laurea in chimica in qualche modo gli salvò la vita, perché gli consentì di lavorare in una fabbrica, con condizioni di detenzione decisamente migliori di quelle degli altri sfortunati con cui condivideva la prigionia. Il ricordo di questa terribile esperienza di vita è alla base di tutti i suoi romanzi: Se questo è un uomo (uscito nel 1947), La tregua (del 1963), vincitore del prestigioso premio letterario “Campiello”, Se non ora, quando? (del 1982) e I sommersi e i salvati (del 1986). Nel 1987 l’esperienza vissuta, mai del tutto superata, lo ha spinto al suicidio.
Levi, prigioniero nel campo di concentramento di Auschwitz dal febbraio 1944 al gennaio 1945, ha affidato il ricordo di questa terribile esperienza non solo ai suoi romanzi, ma anche a una poesia, scritta il 10 gennaio 1946 e intitolata Shemà – che in ebraico significa “ascolta” -, che impone agli uomini di non dimenticare mai quanto è successo.
1Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
5considerate se questo è un uomo,
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no 3.
10Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza per ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo 4
come una rana d’inverno.
15Meditate che questo è stato 5:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi:
20ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi 6.
Da P. Levi, Ad ora incerta, Garzanti, Milano
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
5considerate se questo è un uomo,
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no 3.
10Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza per ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo 4
come una rana d’inverno.
15Meditate che questo è stato 5:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi:
20ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi 6.
Da P. Levi, Ad ora incerta, Garzanti, Milano
Il modo in cui Levi si rivolge a chi lo ascolta è decisamente diverso da quello accorato utilizzato dalla bambina di Hikmet: Levi impone imperiosamente a chi vive in una condizione di appagante serenità quotidiana (descritta nella prima strofa e metaforicamente rappresentata dal calore delle case e dei cibi) di confrontarsi con la realtà di chi ha conosciuto una prigionia che affida la vita al capriccio di un soldato, che impone lavori umilianti e faticosi, che alimenta con un tozzo di pane, per cui si deve litigare. Una condizione, questa, così inumana da spingere le donne, rasate a zero e spogliate – oltre che della loro femminilità – anche della propria identità, a prendere la decisione di tenere freddo il grembo come una rana d’inverno. La contrapposizione con il calore della prima strofa emerge con la forza di un pugno nello stomaco proprio da questo paragone implicito, che trova, nel paragone esplicito con una rana in letargo o stecchita dal freddo, il suo compimento, richiamando alla mente del lettore forti immagini di morte.
Quanto detto è successo davvero: lo dimostra anche la scelta di utilizzare i dimostrativi questo e questa, che avvicinano al lettore l’uomo e la donna prigionieri nel campo di concentramento per renderli vivi e presenti ai suoi occhi.
Da qui la necessità che tutto ciò non si ripeta mai più. L’estrema importanza di questo messaggio legittima non solo le scelte lessicali che attengono al campo semantico del comando, l’insistenza su alcuni termini mediante la figura retorica dell’anafora (senza… senza… senza…, per sottolineare le privazioni), la prevalenza di suoni aspri e duri (come le consonanti s,r,t) e l’uso del modo imperativo (considerate, meditate, scolpite, ripetete, in una sorta di climax ascendente), ma anche la maledizione per chi non lo diffonderà e, soprattutto, per chi non lo insegnerà ai propri figli. Questa maledizione si leva da lontano, dalla notte dei tempi, perché si ispira ad alcuni versetti del libro biblico del Deuteronomio (Deut. 6, 4-7 e 11,13-21) che sono alla base di una delle preghiere più importanti dell’ebraismo, lo Shemà, “ascolta”, titolo che non a caso Levi ha scelto per questa poesia. È di fondamentale importanza, dunque, che tutti ascoltino le sue parole e che lo facciano soprattutto gli adulti, perché se è vero che la guerra distrugge e uccide tutto e tutti, è anche vero che i bambini sono gli unici a cui si può affidare la speranza che, divenuti loro malgrado testimoni dell’orrore, facciano in modo che esso non si ripeta mai più in quel futuro che appartiene a loro e che la Storia deve proteggere con i suoi insegnamenti. Per questo gli adulti dovranno ripetere loro con forza queste parole, stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi: la scelta del gerundio, che astrae le azioni dal tempo rendendole eterne, e dell’enumerazione, che non concede tregue, sottolinea con forza l’urgenza e la perentorietà di questo messaggio.
Non è certamente un caso, del resto, che in un testo poetico di andamento prosastico e privo di rime, siano presenti due assonanze cariche di significato: pace-pane, che rimanda alla possibilità di vedere fiorire la vita, metaforicamente rappresentata dal pane, solo dove c’è la pace, e, soprattutto, parole-cuore, perché, se le parole del poeta riusciranno a scalfire il duro cuore degli uomini con il dolore di cui si fanno portavoce, forse, per loro, ci sarà ancora una speranza…
Note
1. Strinati: bruciacchiati.
2. La storia di Sadako è raccontata dallo scrittore austriaco Karl Bruckner (1906 -1985) in un famoso romanzo intitolato Il gran sole di Hiroshima.
3. Per un … no: i monosillabi pronunciati da un soldato, quando, durante le eliminazioni giornaliere, i più deboli e i malati erano mandati alle camere a gas.
4. Vuoti… grembo: con gli occhi che non vogliono più guardare e con il grembo che non vuole più partorire, in modo da non generare altra sofferenza.
5. È stato: è realmente accaduto.
6. O… voi: oppure vi crolli la casa, vi colpisca una malattia invalidante, i vostri figli vi rinneghino.

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