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grammatica e letteratura italiana | latina | greca

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In cucina con Apicio

in APPROFONDIMENTI / LETTERATURA LATINA

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Marco Gavio Apicio, vissuto nel I secolo a. C. sotto gli imperatori Augusto e Tiberio, fu un famosissimo cuoco, a cui va attribuita – secondo Plinio il Vecchio – l’invenzione del fois gras, che egli otteneva facendo ingozzare le sue oche con i fichi. Seneca, nella sua Consolatio ad Helviam matrem (Consolazione alla madre Elvia, 10, 8 -10), ci riferisce che Apicio sperperò per il cibo ben cento milioni di sesterzi: per esempio, non esitò a noleggiare una nave con l’intero equipaggio per andare in Libia a sincerarsi personalmente della grandezza dei gamberi che si trovavano in quel mare ed essere così sicuro che fosse minore di quella dei gamberi da lui allevati. Quando si accorse che il suo patrimonio si era sensibilmente ridotto (gli restavano “solo” dieci milioni di sesterzi!), preferì uccidersi con il veleno piuttosto che rinunciare agli stravizi a cui era abituato. Proprio da questi stravizi deriverebbe il soprannome Apicius, il nome di un noto buongustaio vissuto verso la fine del II secolo a. C.

La copiosa aneddotica che riguarda Apicio tramanda su di lui anche racconti decisamente poco lusinghieri: le nostre fonti riferiscono, infatti, che nutriva le murene con la carne dei suoi schiavi e che era solito procurarsi gli ingredienti per le pietanze che cucinava infierendo senza pietà sugli animali (per esempio gettando le triglie ancora vive nella salsa – in modo che vi affogassero – oppure tagliando le creste ai volatili vivi).

A un certo punto della sua vita Apicio decise di trascrivere le ricette dei manicaretti che gli avevano dato la fama: nacque così il De re coquinaria (L’arte culinaria), una raccolta di circa cinquecento ricette – suddivise in dieci libri – destinata ai cuochi. Noi possediamo quest’opera in una redazione che – sulla base dei tratti linguistici e di alcuni riferimenti storici – può essere fatta risalire al IV secolo d.C.: è probabile che il nucleo originario di ricette, steso da Apicio e suddiviso in due parti (la prima dedicata alle salse, la seconda ai piatti completi), si sia stratificato nel tempo, arricchendosi di diversi contributi.

Molte di queste ricette risultano decisamente poco allettanti, non tanto per le pietanze in sé, quanto perché i Romani amavano il gusto agrodolce: i funghi, per esempio, erano conditi con il miele e la carne di maiale era cucinata con le albicocche e le susine! Per ottenere questa commistione essi usavano, oltre al miele, il defrutum (mustum), detto anche sapa, del mosto cotto e fatto addensare in una caldaia di rame, e, soprattutto, il garum o liquamen, un condimento aromatico molto salato che aveva il compito sia di sostituire il sale – all’epoca assai costoso – sia, se necessario, di coprire il sapore della carne non troppo fresca o mal conservata.

Il garum, di origine greca (il suo nome rimanda, infatti, al greco garon, il pesce utilizzato fin dal V secolo a. C. per la salsa), era inizialmente un lusso riservato alle tavole dei ricchi, poi si diffuse in ogni strato della popolazione, anche se le fasce più basse utilizzavano quello meno pregiato. La ricetta per la sua preparazione, molto lunga e laboriosa, ci è stata tramandata da Quinto Gargilio Marziale, uno scrittore romano del III secolo d. C. In un recipiente di coccio impeciato venivano posti dei pezzetti e delle interiora di pesci grassi – come le sardine, le anguille e i salmoni – su un letto di erbe aromatiche (finocchio, aneto, timo, salvia, menta, origano…); essi erano poi ricoperti da due dita di sale grosso. Questo procedimento andava ripetuto fino a formare tre strati. Il recipiente, chiuso con un tappo di sughero, era lasciato per sette giorni al sole, in modo che il pesce potesse macerare e fermentare; poi veniva aperto e si mescolava il contenuto, una volta al giorno, per venti giorni. Trascorso questo lasso di tempo, si poneva la poltiglia così ottenuta in cestino a maglie fitte: il liquido che ne colava (ottenuto mescolando e pigiando la poltiglia), il garum o liquamen, era raccolto in anfore, che venivano sigillate e conservate al fresco nelle cantine. Questo condimento, usato puro a gocce oppure diluito in vino e olio, era molto presente in cucina, per ogni genere di pietanza (persino per i dolci!): il migliore, chiamato garum sociorum (garum degli amici), era prodotto nella Spagna del sud ed era molto costoso, perché ottenuto da soli sgombri; in Italia era particolarmente apprezzato quello che si faceva nella città di Pompei, il garum degli umbri. Non doveva essere facile distinguere i sapori delle pietanze così condite: del resto lo stesso Apicio sosteneva – esattamente al contrario di quanto pensiamo noi! – che se il cuoco è preparato a tavola nessuno riconoscerà ciò che mangia.

L’opera di Apiciodi scarso valore letterario, perché scritta in un latino estremamente elementare e privo di eleganza retorica e formale – costituisce una testimonianza di grande valore culturale e lessicale: essa ci fornisce infatti molte informazioni non solo sulle abitudini e sugli usi alimentari della raffinata arte culinaria di età imperiale (decisamente lontana dalla frugalità che aveva contraddistinto quella delle epoche precedenti!), ma anche sulle proprietà dietetiche e addirittura sul potere curativo di numerose pietanze, il tutto con l’utilizzo di vocaboli che appartengono all’area semantica della cucina (che identificano cibi, spezie, attrezzi…), che altrimenti non conosceremmo. Molti di questi vocaboli sono passati nell’italiano: è il caso, per esempio, di coclear, cucchiaio, di ampulla, ampolla e di calix, calice.

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