Fr. 67 a (128 West)
in TESTI \ ARCHILOCO \ POETI ELEGIACI E GIAMBICI \ LETTERATURA GRECA
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In questi versi il poeta Archiloco si rivolge al proprio cuore.
Θυμέ, θύμ᾽ ἀμηχάνοισι κήδεσιν κυκώμενε,
ἀνάδυ, δυσμενῶν δ᾽ ἀλέξευ προσβαλὼν ἐναντίον
στέρνον, ἐνδόκοισιν ἐχθρῶν πλησίον κατασταθείς
ἀσφαλέως· καὶ μήτε νικῶν ἀμφάδην ἀγάλλεο,
μηδὲ νικηθεὶς ἐν οἴκῳ καταπεσών ὀδύρεο·
ἀλλὰ χαρτοῖσίν τε χαῖρε καὶ κακοῖσιν ἀσχάλα
μὴ λίην· γίγνωσκε δ᾽ οἷος ῥυσμὸς ἀνθρώπους ἔχει.
Cuore, cuore, abbattuto da tormenti senza rimedio,
rialzati, difenditi ponendo di fronte agli avversari
il petto, negli attacchi dei nemici posto vicino, ben saldo,
con coraggio: e non esaltarti in pubblico quando vinci
e non abbatterti gettandoti per terra in casa, quando sei stato vinto:
ma gioisci per le gioie e affliggiti per i mali,
non troppo: tieni presente quale alterna vicenda governa gli uomini.
(traduzione di A. Micheloni)
Questi versi, che ci sono arrivati grazie a Stobeo e a Dionigi di Alicarnasso, sono tratti da un carme in cui il poeta greco Archiloco, forse addolorato per un torto subito da un amico, si rivolge, come detto, al proprio cuore. Egli lo esorta a essere coraggioso di fronte alle prove della vita, invitandolo a non abbattersi troppo per le sconfitte e a non esaltarsi troppo per i successi, perché entrambi rientrano nel normale ordine delle cose…
Alla base del vivere c’è infatti un ῥυσμὸς (rusmòs), un’alterna vicenda che ne scandisce i momenti: i battiti del cuore, il succedersi di giorno e notte, le stagioni… sono solo alcuni esempi. È dunque importante che l’uomo vi si adegui e che comprenda la necessità di assecondare questo fluire senza abbattersi eccessivamente nelle sventure e senza gioire troppo nei momenti felici: bisogna adottare, insomma, quel giusto mezzo (μηδὲν ἄγαν, medèn àgan, nulla di troppo) che si concretizza nella virtù della σωφροσύνη (sofrosùne, saggezza) e che può essere considerato il principio basilare dell’etica greca. Questa sentenza, attribuita a uno dei Sette saggi, Solone, e raccomandata dall’Apollo delfico, individua proprio nell’eccesso la causa di ogni male: lo stesso concetto confluirà nell’etica latina come mediocritas, da intendere appunto come la capacità di fuggire gli eccessi.
Rivolgersi al proprio cuore è una prerogativa dei poeti di ogni tempo: prima di questi versi già Omero aveva fatto interagire alcuni dei suoi personaggi con il proprio cuore. Nel XXII libro dell’Iliade (ai vv. 98 – 130) Ettore, prima dello scontro decisivo con Achille, confida al suo magnanimo cuore le preoccupazioni che lo attanagliano; Odisseo, nel XX libro dell’Odissea (ai vv. 18 – 24), invita il suo cuore a trattenere l’ira nei confronti delle ancelle che gli sono state infedeli recuperando il ricordo di altri dolori passati, come quando Polifemo ha fatto strage dei suoi compagni. Proprio questo passo sembra essere particolarmente presente ad Archiloco: ma mentre Odisseo è certo che questo ricordo lo aiuterà a superare il male presente, Archiloco parla di mali senza rimedio. Il soldato che è in lui, però, non si dà comunque per vinto: rappresentando il cuore come un valoroso combattente e rivolgendosi a lui con espressioni tratte dal linguaggio militare, Archiloco si dichiara pronto ad affrontare i nemici protendendo il petto in avanti e mettendosi ben saldo sui piedi, non arrendendosi ai momenti bui che inevitabilmente si alternano a quelli positivi, perché solo adeguandosi a questo ciclo vitale l’uomo potrà essere in grado di essere superiore agli eventi.
Altrettanto intense le parole che Giacomo Leopardi rivolge, in A se stesso, al suo cuore, irrimediabilmente tradito e disilluso dopo la fine dell’estremo inganno, l’amore.
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
5 non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
10 la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
15 poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.
Da G. Leopardi, Poesie e prose, Mondadori, Milano
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
5 non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
10 la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
15 poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.
Da G. Leopardi, Poesie e prose, Mondadori, Milano
In questa strofa libera di settenari ed endecasillabi il poeta sfoga l’amarezza di una delusione d’amore, che non provoca in lui né rassegnazione né ripiegamenti intimistici, ma, al contrario, lo spinge a gridare tutta la sua rabbia e la sua disperazione, perché ha voluto abbandonarsi ai sentimenti, cosa che ha determinato soltanto un’enorme sofferenza. Il poeta spera – e si augura – che la lezione sia servita: per questo motivo egli dà per scontato che il cuore seguirà finalmente i suoi consigli, dimenticando per sempre l’amore e tenendo invece ben presente l’infinita vanità del tutto, in una visione della vita decisamente più dolorosa di quella proposta da Archiloco.
Analisi del testo
METRO: tetrametri trocaici catalettici
Θυμέ: l’iterazione di questo vocativo fa in modo che l’apostrofe abbia subito forza e concitazione. Anche in questi versi il termine θυμός indica, come in Omero, sia l’energia che spinge ad agire, sia il luogo in cui nascono i sentimenti, le emozioni e le passioni: per questo esso viene identificato con il cuore.
ἀμηχάνοισι: il dativo plurale dell’aggettivo presenta la desinenza ionico-epica in – οισι anziché quella consueta in – οις; da notare anche la presenza di ἀ privativa (senza rimedio).
κήδεσιν: dativo strumentale da κῆδος, -ους che indica il tormento, l’affanno.
κυκώμενε: questo participio presente con valore passivo deriva dal verbo κυκάω; è concordato con il vocativo θυμέ. Il verbo indica, in senso letterale, l’abbattersi sulla spiaggia del flutto del mare.
ἀνάδυ: l’imperativo dell’aoristo terzo del verbo ἀνάδυω acquista maggior forza sia dal fatto di essere stato separato dal resto con una virgola sia dalla collocazione all’inizio del verso.
δυσμενῶν: è retto da ἐναντίον: davanti a. Si tratta del genitivo plurale dell’aggettivo a due uscite (della seconda classe) δυσμενής, ές.
ἀλέξευ: questa forma, ionica, corrisponde all’attico ἀλέξου, imperativo presente medio del verbo ἀλέξω.
στέρνον: il petto proteso in avanti, come simbolo di coraggio, è efficacemente sottolineato dall’enjambement che colloca il vocabolo all’inizio del verso, in posizione enfatica.
κατασταθείς: participio aoristo passivo con valore intransitivo da καθίστημι. Il verbo ίστημι presenta il fenomeno – tipico del dialetto ionico – della psilosi, cioè la scomparsa dello spirito aspro, che determina, in questo caso, il mancato passaggio della tau della preposizione a theta.
μήτε νικῶν… μηδὲ νικηθεὶς: espressioni correlate. Entrambi i participi, riferiti all’animo, assumono una sfumatura temporale (o condizionale).
ἀγάλλεο: forma ionica dell’imperativo presente medio del verbo ἀγάλλω; corrisponde all’attico ἀγάλλου.
ἀμφάδην: pubblicamente, in pubblico. Questo avverbio è un hapax legomenon, definizione con cui in filologia si indica un vocabolo che compare una sola volta in tutta la letteratura. I greci non amavano mostrare pubblicamente la gioia, perché questo comportamento era considerato sconveniente e addirittura provocatorio nei confronti degli dei (basti citare, per esempio, il divieto che nel XXII libro dell’Odissea, ai versi 407 – 416, Odisseo impone a Euriclea, perché non gioisca dopo la strage dei Proci); al contrario essi potevano manifestare liberamente il proprio dolore.
καταπεσών: participio aoristo II di καταπίπτω che, in senso metaforico, può essere inteso come gettare/gettarsi a terra.
ὀδύρεο: imperativo presente medio di ὀδύρομαι. Questa forma ionica corrisponde all’attico ὀδύρου.
χαρτοῖσίν τε χαῖρε: si tratta di una figura etimologica, che consiste nell’utilizzo di un sostantivo e di un verbo che derivano dalla stessa radice; χαρτοῖσιν è un aggettivo verbale neutro plurale sostantivato (τὰ χαρτά), con la desinenza ionico – epica già messa precedentemente in evidenza.
μὴ λίην: l’avverbio λίην (che corrisponde all’attico λίαν) acquista forza dal fatto di essere stato separato con un enjambement dal verbo a cui si riferisce, ἀσχάλα, imperativo presente di ἀσχαλάω.
οἷος ἀνθρώπους ἔχει: proposizione interrogativa indiretta.
ῥυσμὸς: questa forma, ionica, corrisponde all’attico ῥυθμός; deve essere messa in rapporto con il verbo ῥέω, scorrere. Come visto, indica la naturale alternanza tra piacere e dolore che caratterizza la vita del cosmo e, di conseguenza, quella dell’uomo.
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