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grammatica e letteratura italiana | latina | greca

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Biblioteca

“Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”.
Queste parole della scrittrice francese Marguerite Yourcenar rispecchiano perfettamente il mio pensiero. La Biblioteca della Sofisteria propone consigli di lettura per “ammassare riserve”, ma anche per condividere “il gioco più bello che l’umanità abbia inventato” (Wislawa Szymborska).

Consigli di lettura

Baricco, Alessandro

Novecento

Benni, Stefano

L’ultima lacrima

Carrisi, Donato

La donna dei fiori di carta

Feltri, Vittorio

Il latino lingua immortale

Guareschi, Giovannino

La favola di Natale

Lomartire, Carlo Maria

La Dama e il Moro

Owens, Delia

La ragazza della palude

Pennac, Daniel

Diario di scuola

Russo, Carla Maria

La sposa normanna

Toffa, Nadia

Fiorire d’inverno

Tornatore, Giuseppe

La migliore offerta

Zusak, Markus

Storia di una ladra di libri

TITOLO: Novecento

AUTORE: Baricco, Alessandro

EDITORE: Feltrinelli
GENERE: Monologo teatrale
PAGINE: 62

A bordo del Virginian, negli anni tra le due guerre

È lo stesso autore, Alessandro Baricco, a presentarci, in una breve prefazione, questo piccolo capolavoro: Mi sembra piuttosto un testo che sta in bilico tra una vera messa in scena e un racconto da leggere ad alta voce. Non credo che ci sia un nome, per testi del genere. Comunque, poco importa. A me sembra una bella storia, che valeva la pena di raccontare. E mi piace pensare che qualcuno la leggerà (pag. 7).

Un piroscafo che solca l’Oceano. A bordo, accanto a ricchi passeggeri in crociera, ci sono dei disperati che lasciano il loro paese in cerca di fortuna. I giorni di viaggio scorrono lenti, finché accade… Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa… e la vedeva. È una cosa difficile da capire. Voglio dire… Ci stavamo in più di mille su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi… Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo… la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o passeggiando, semplicemente, sul ponte… magari era lì che si stava aggiustando i pantaloni… alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso il mare… e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava (piano e lentamente): l’America (pag.11).

Il piroscafo percorre avanti e indietro la sua rotta, con il suo carico di uomini e con le loro storie. Tra di loro un pianista straordinario, che si esibisce per ricchi e poveri, ammaliandoli con la sua musica senza eguali… Lui diceva: “Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla”. Lui l’aveva una… buona storia. Lui era la sua buona storia. Pazzesca, a ben pensarci, ma bella (pag.17).

Già, perché Novecento, questo il suo nome, ha davvero una storia pazzesca alle spalle. Comincia quando un marinaio negro di Philadelphia (proprio così, negro, perché il monologo è stato scritto quando non erano le parole a fare paura, ma l’ignoranza e la superficialità di chi non le sa usare in modo opportuno, ragion per cui non era necessario limitarne o stigmatizzarne l’uso), un marinaio, dicevamo, lo trovò un mattino che erano già tutti scesi, a Boston, lo trovò in una scatola di cartone. Avrà avuto dieci giorni, non di più. Neanche piangeva, se ne stava silenzioso, con gli occhi aperti, in quello scatolone. L’avevano lasciato nella sala da ballo della prima classe. Sul pianoforte. Non aveva l’aria però di essere un neonato di prima classe. Quelle cose le facevano gli emigranti, di solito. Partorire di nascosto, da qualche parte del ponte, e poi lasciare lì i bambini. Mica per cattiveria. Era miseria, quella, miseria nera (pag. 18). Dovevano essersi fatti un ragionamento: se lo lasciamo sul pianoforte a coda, nella sala da ballo di prima classe, magari lo prende qualche riccone, e sarà felice tutta la vita. Era un buon piano. Funzionò a metà. Non diventò ricco, ma pianista sì. Il migliore, giuro, il migliore. (pag. 19)

E così Novecento diventa il figlio del piroscafo. Novecento non esisteva nemmeno, per il mondo: non c’era città, parrocchia, ospedale, galera, squadra di baseball che avesse scritto da qualche parte il suo nome. Non aveva patria, non aveva data di nascita, non aveva famiglia (pag. 22). Ma c’è. Ed è lì, a bordo del piroscafo, che è la sua casa e tutto il suo mondo…

È in questo mondo che il piccolo Novecento impara a fare due cose: suonare e ascoltare…. Già a otto anni suonava non so che diavolo di musica, ma piccola e… bella. Non c’era trucco, era proprio lui, a suonare, le sue mani, su quei tasti, dio sa come. E bisognava sentire cosa gli veniva fuori (pag. 24). E ancora: Sapeva ascoltare. E sapeva leggere. Non i libri, quelli son buoni tutti, sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia…Tutta scritto, addosso. Lui leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava… Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all’altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa. Ci viaggiava sopra da dio, poi, mentre le dita gli scivolavano sui tasti, accarezzando le curve di un ragtime (pag. 33).

È proprio grazie a queste due capacità che Novecento diventa un pianista meraviglioso. Ma il pianoforte non è solo musica: è anche un maestro di vita. Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere (pag. 56).

Difficile contenere la commozione che accompagna la lettura delle pagine finali, che sublimano il senso di una vita dedicata alla musica, che lenisce i dolori e dona attimi intensi di felicità e – soprattutto – permette a Novecento di trovare un delicato e prezioso equilibrio tra finito e infinito, tra sogni e realtà. Di qui la sua struggente decisione finale, perché se quella tastiera è infinita, allora su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio (pag.56).

E se è difficile chiudere l’ultima pagina di un’esperienza di lettura breve, ma davvero intensa, ci si può consolare vedendo il film che è stato tratto da questo libro, La leggenda del pianista sull’Oceano, di Giuseppe Tornatore, in cui uno straordinario Tim Roth interpreta Novecento con una sensibilità e una grazia che trovano eguale solo nelle splendide melodie di un altro genio della musica, il maestro Ennio Morricone.

TITOLO: L’ultima lacrima

AUTORE: Benni, Stefano

EDITORE: Feltrinelli
GENERE: Racconti
PAGINE: 171

 

Ovunque… ieri, oggi, domani

La raccolta L’ultima lacrima, uscita nel 1994, riunisce ventisette racconti con cui Stefano Benni traccia l’impietoso ritratto di una realtà, quella contemporanea, sempre più invasa da comportamenti massificati e da mostruosità tecnologiche: così, nelle pagine di questo libro, ci si confronta con il potere della televisione, il consumismo, il conformismo, le difficoltà di chi viaggia, le problematiche economiche, l’abuso di potere, l’asservimento, il cinismo di chi pensa agli affari, le dure leggi di mercato, la forza dei sondaggi, il conflitto generazionale, la crescente disumanizzazione, la mancanza di senso critico, il desiderio di apparire… tematiche che sono affrontate con uno stile assolutamente unico.

Questi racconti, pur essendo spesso ambientati in luoghi di fantasia (persino nello spazio!) e in tempi assai lontani dal nostro (dalla Preistoria al futuro) in realtà non sono affatto distanti da noi: le invenzioni fantastiche di Benni affondano le loro radici nel nostro vissuto, nella nostra società, nel nostro ambiente, insomma nella nostra vita quotidiana, che l’autore trasfigura e ritrae, con evidente compiacimento, nelle pagine del suo libro. Così, per esempio, il conflitto generazionale, che è nato nella notte dei tempi, è affrontato con il racconto dell’amore adolescenziale tra Rex e Tyra, due tirannosauri in tutto e per tutto simili ai giovani d’oggi; le paventate conseguenze dello strapotere dei mezzi di comunicazione sono illustrate in un futuro in cui a scuola si studierà Storia della televisione e sarà punito chi non vede almeno sei ore di Tv al giorno:

– Allora, Zeffirini, cos’hai fatto invece di studiare?

– Ho letto.

La profe trasalì.

– Hai letto… cosa?

– Un libro di animali, signora maestra.

– Perché?

– Perché mi piacciono gli animali. Se vuole le posso elencare le distinzioni dei pesci in generi e classi, oppure le posso parlare dei delfini e delle grandi spedizioni oceanografiche…

– Non è nel programma, Zeffirini! Quando avrai fatto i tuoi compiti, potrai leggere tutti i libri che vuoi, ma prima no! (pag. 26).

L’effetto sorpresa, ottenuto introducendo in un contesto apparentemente normale una situazione anomala, che mette in atto una sorta di rovesciamento del reale, è appositamente ricercato da Benni per spronare il lettore a una riflessione consapevole su ciò che lo circonda. È quello che succede, per esempio, nel racconto intitolato Fratello Bancomat, in cui la macchina si comporta come una sorta di novello Robin Hood: essa, un meccanismo senz’anima che per la società è il simbolo della freddezza, dimostra, al contrario, di conoscere il valore – tutto umano – della solidarietà, mettendo in atto un rovesciamento del reale che giustifica e spiega il titolo del racconto… Questo meccanismo narrativo viene spesso portato al paradosso, come accade, per esempio, nel racconto intitolato Coincidenze, interamente costruito come un dialogo tra un uomo e una donna che si incontrano alla metà esatta di un ponte e che invece di riconoscersi come perfettamente complementari (da un lato del ponte avanzava un uomo con ombrello e cappotto. Dall’altro una donna con cappotto e ombrello, pag. 28) sfiorano l’amore senza neppure accorgersene, perché troppo impegnati a razionalizzare ciò che accade loro, derubricandolo a un’inspiegabile serie di coincidenze…

Questa modalità narrativa, che la critica definisce sfondamento del realismo, riguarda anche – e soprattutto – la straordinaria galleria di tipi umani che costituiscono i personaggi di questi racconti. Benni li presenta secondo i tradizionali canoni della narrativa (caratterizzazione fisica, psicologica, sociale…) ma vi aggiunge una serie di elementi assurdi e marcatamente comici che si affastellano uno sull’altro e che sono presentati al lettore come se fossero tratti del tutto normali: Erasmo Leproni, il protagonista di Erasmo, il venditore del cosmo, ha la straordinaria idea di vendere l’ombra agli abitanti del pianeta Bleton, sempre esposto al Sole, ma si dimentica di informarsi sull’aspetto dei bletoniani, difficilmente riconoscibili in un contesto di creature del cosmo dagli aspetti più strani; il puntualissimo viaggiatore de L’uomo puntuale si presenta come inesorabilmente segnato da questo stigma (Io sono, ahimè, puntuale dalla nascita. Sono nato al nono mese spaccato, piangevo per il latte ogni quattro ore, non sono mai arrivato in ritardo né all’asilo né a scuola, né in ufficio, o a un qualsiasi appuntamento, alzabandiera o funerale. Anche se mi sono accorto subito che la mia malattia era grave perché mi costringeva a corse, attese, delusioni, rabbie. Ero puntuale in un mondo di non puntuali, e non sono mai riuscito a smettere (pag. 61); c’è poi il signor Jacques “Jojo” Dubois di Arles (Francia) che ha una stranissima peculiarità: è l’unico pescatore al mondo che nei suoi racconti diminuisce lunghezza e peso delle prede. Ad esempio, il mese scorso, dopo aver pescato una carpa di sette chili, ha raccontato agli amici del bar di averne catturata una da quattro chili e mezzo. Il suo incredibile caso è attualmente all’esame della scienza medica (pag. 126) …

Accanto ai personaggi principali non mancano, poi, quelli che possono essere definiti delle macchiette, dei personaggi, cioè, dalla presenza limitata ma con una caratteristica molto marcata, che si esprime attraverso gesti, frasi, azioni che li rendono particolarmente incisivi (come il preside che rimprovera il povero Zeffirini –sempre lui! – perché a dodici anni non ha ancora un motorino e perché non ha adesivi, gadget e scritte sullo zaino di scuola, rivelandosi l’esatto contrario del ruolo istituzionale che riveste!).

Merita un cenno anche il linguaggio di Benni, reso particolarmente vivace e accattivante dalla sua capacità – affine a quella di un altro grande scrittore italiano, mai abbastanza conosciuto, Carlo Emilio Gadda – di stravolgere la sintassi, l’ortografia e il lessico. Benni si diverte a giocare con le parole mescolando neologismi, termini alti, vocaboli tecnici, esotismi, espressioni gergali o addirittura triviali, storpiando e deformando parole italiane e straniere, equivocando sui significati… Particolarmente felice, per esemplificare questa sua capacità, la prova di traduttore che egli fa dare al critico Zebél: “ed egli, incontrandola frale e rorida per la silvifora corsa, ebbe tema di vederla morsa dal rivelenar dei tubercoli, e accoronatole il tabarro ai labastri dorsali disse: “Cara, lei addiaccia…” Bello, vero? a cui l’autore del passo tradotto risponde: Bello? Da toccarsi le palle. Dieci metri sotto la pioggia e già me la ammazza di tisi. Io avevo scritto più o meno: Vedendola così sudata e temendo per la sua cagionevole salute le mise garbatamente la giacca sulle spalle e disse: signorina, ha freddo?” (pag. 164).

In questo gioco rientrano anche i nomi propri di luoghi e personaggi, che sono spesso parlanti, con un’evidente funzione simbolica o evocativa: è il caso del dottor Adattati, l’uomo tranquillo che plasma se stesso a seconda del direttore con cui ha a che fare: il dottor Adattati aveva infatti nella vita una sola idea chiara, irrinunciabile, trainante: non avere idee. In subordine (quindi) avere soltanto le idee dei suoi superiori. Come conseguenza teorica (riquindi), conoscere alla perfezione le loro idee. Come esito pratico (triquindi) adattare in tutto e per tutto il suo comportamento alle loro idee (pag.73).

Molto particolare e frequente è anche l’uso della figura retorica dell’iperbole, che consiste nel portare all’eccesso espressioni, concetti e azioni, espediente che produce un irresistibile effetto comico, come accade nella memorabile sfuriata del famoso tenore Manrico Del Pietro, soprannominato, non a caso, Re Capriccio, che tutti temono proprio per le sue scenate: Dopo un attimo, l’hotel fu investito dalla scenata del tenore. In ognuna delle duecentosei stanze la sua voce turbinò come una bufera, i camerieri cercarono rifugio negli ascensori, i clienti sotto i letti, i facchini dentro i bauli, nelle cucine rotolarono pentole e tegami, le maionesi impazzirono, i cuochi tremarono come gelatine. Tanta era l’onda d’urto di quella voce furibonda (pag. 89).

Il rovesciamento della realtà e gli artifici di parole strappano inevitabilmente ben più di una risata al lettore, che, come detto, viene però anche spinto a riflettere sulla realtà che sta dietro – o dentro o attorno – ai personaggi, proprio perché lo scopo principale della scrittura di Benni è far riflettere divertendo, come si addice a ogni bravo umorista: l’umorista, infatti, a differenza del comico, non vuole suscitare una risata, ma strappare un sorriso che spinga a scoprire il lato più sofferto e malinconico di ciò che lo ha suscitato (come spiega Pirandello nel suo famoso saggio intitolato L’umorismo).

E, a proposito di riflessioni, ci sono, in uno di questi racconti, delle parole davvero intense, quelle con cui uno dei personaggi, il libraio chiamato l’Alchimista, saluta i libri che sta vendendo: vorrei condividerle con voi, che, come me, amate i librisi diceva che spiegasse ai libri quale viaggio stavano per intraprendere, che li consolasse della partenza, che li avvertisse degli usi e dei costumi del paese ove avrebbero vissuto, e degli eventuali pericoli. Al momento di consegnarli in posta, carezzava i pacchetti uno a uno, e formulava a bassa voce auguri di buon viaggio. Talvolta, tra gli sguardi comprensivi degli spedizionieri, si abbandonava al pianto. (pag. 33).

TITOLO: La donna dei fiori di carta

AUTORE: Carrisi, Donato

EDITORE: Longanesi
GENERE: Noir / romanzo storico / romanzo d’amore
PAGINE: 165

Monte Fumo, Dolomiti, notte tra il 14 e il 15 aprile 1916

Siamo alla vigilia di una battaglia decisiva della prima guerra mondiale. In una caverna buia e umida di quell’immensa cattedrale di ghiaccio che è il monte Fumo due uomini parlano, bevono caffè e fumano sigarette. Uno è un prigioniero italiano che sarà fucilato all’alba, se non rivelerà il suo nome e il suo grado, l’altro, Jacob Roumann, è un medico da campo dell’esercito austriaco che ha solo una notte per convincerlo a parlare, ma che non sa che quello che sta per sentire cambierà per sempre la sua vita, perché quando il destino decide di deviare il corso della nostra esistenza non ci avverte […] Il Fato non fornisce indizi. Non ci sono avvisaglie oppure – per chi ha bisogno di una visione mistica – segni. Accade e basta. E quando succede, si verifica come una cesura. E per il resto della vita sarai costretto a una distinzione. Ciò che c’era prima di quel momento, e il dopo (pag.17).

Il prigioniero promette a Jacob che gli rivelerà la sua identità solo se lui ascolterà la storia che darà risposta a tre domande: chi è Guzman? Chi sono io? E chi era l’uomo che fumava sul Titanic (pag.44)?
E così comincia la sua narrazione, perché per rendere felice un uomo basta offrirgli l’opportunità di raccontare (pag. 99): del resto, come spiega il prigioniero durante il suo racconto, tutti abbiamo bisogno di una passione, o di un’ossessione. Cerca la tua. Desiderala fortemente, e fadella tua vita la ragione stessa per cui vivi (pag.40).

La storia narrata dal prigioniero porta Jacob molto lontano: seguire le orme di Guzman vuol dire addentrarsi in luoghi misteriosi (per esempio, tra le montagne che cantano), conoscere personaggi affascinanti (come Madame Li, Dardamel ed Eva Mòlnar), perdersi in vite che si intrecciano vicendevolmente, misurarsi con sentimenti diversi, come l’odio e l’amore…

Già, l’amore.
“Voglio sapere che cos’è l’amore.”
“A che ti serve?”
“Ad avere il cuore di una donna.”
“Tu vuoi possedere il suo cuore?”
“No, me lo ha insegnato mio padre che il possesso è il più grave torto che si possa fare al cuore di una persona amata. Io lo voglio solo in prestito.” (pag. 95)

I fatti che racconta il prigioniero, apparentemente così lontani, pian piano risultano collegati tra loro: nella stessa notte di quattro anni prima il Titanic affondava, un uomo vestito di tutto punto fumava tranquillo un sigaro sul ponte della nave che stava colando a picco e Jacob festeggiava il suo compleanno… Da questo racconto il povero medico condotto prestato a una guerra – un male che forse per carenza di audacia non è in grado di capire, stanco di essere l’ultima speranza di tutti, perché, dopo di lui, rimane solo Dio (pag. 23) – trae la forza necessaria per superare l’orrore di quanto ha dovuto vedere e il dolore lacerante che prova per l’abbandono della moglie, perché ora ha una storia da raccontarle

Difficile definire il genere di appartenenza di questo libro: il romanzo noir si colloca in un contesto di guerra ricostruito con la precisione che si deve a un romanzo storico, ma le sue pagine sono piene di parole e di immagini che appartengono a un romanzo d’amore, arrivando a sfiorare la poesia, come accade nella struggente lettera che lo chiude… insomma, certamente una sorpresa per chi cerca il Carrisi dei grandi thriller che gli hanno regalato la fama.

La donna dei fiori di carta celebra, insieme all’amore e al vizio del fumo (con buona pace del politicamente corretto, come annota lo stesso autore al termine del romanzo), la capacità di raccontare e di ascoltare. Non è un caso che prima Guzman, poi il prigioniero e infine Jacob si definiscano l’ultimo aedo: il modo in cui le vicende narrate fioriscono l’una sull’altra ricorda davvero l’arte di fare della parola uno strumento di diletto e di fascinazione che fu propria dei cantori dell’antica Grecia, ma che rivive ogni volta che qualcuno, come un moderno Omero […] sa portare agli uomini il conforto dell’immaginazione (pag.61).

TITOLO: Il latino lingua immortale

AUTORE: Feltri, Vittorio

EDITORE: Mondadori
GENERE: Saggio
PAGINE: 151

Da Roma… ai giorni nostri

Vittorio Feltri in questo saggio si propone di far capire al lettore non solo la bellezza della lingua latina, ma anche quanto essa possa costituire ancora oggi una grande risorsa per tutti noi. Scrive nella Prefazione Giulio Dellavite: Un plus! E lo pronuncio con la “u” bella piena latina e non con una “a” biascicata anglofona. Il latino è un plus: per qualcuno è un di più, ma per qualcun altro è un valore aggiunto. Il direttore Feltri, con la sua penna egregia – dal latino ex grege, fuori dal gregge -, offrendo pagine dense di storia e di storie sue mostra come il latino non sia una lingua morta, ma un lievito madre. (pag. VII).

Un lievito, il latino, che è ancora ben vivo e attivo. Da qualche parte c’è un errore in agguato: credere che il latino sia comunque un’entità circoscritta nel passato, che sia solo testimonianza di un mondo ormai sparito, dissolto per sempre: nulla di più sbagliato, perché il latino è vivissimo, è tra noi, e si è insinuato nel nostro tempo non solo conservandosi ovviamente nell’italiano che tutti utilizziamo, ma anche strutturando il lessico della scienza, della medicina e della farmacologia, della tecnologia e dell’informatica, del marketing e della pubblicità (pag.7).

Il fatto è che spesso non ci accorgiamo di quanto questa lingua sia ancora presente in mezzo a noi. Davvero possiamo divertirci con una lunga lista di parole che usiamo di continuo e della cui provenienza latina abbiamo ormai smesso di renderci conto. Il motivo è che non ne conosciamo l’atto di nascita, oppure, più semplicemente, che sono diventate routine e dunque nemmeno quel suono vagamente latineggiante ci riporta al mondo di Cicerone (pag.12).

È il caso, per esempio, della parola monitor. Proprio nel monitor, spiega infatti Feltri, c’è ancora latino, latino camuffato. È un elemento del computer, e capisco che abbia perciò un’aria così inglese, invece garantisco che è ancora latino, quello vero. Intendiamoci, la parola rimbalza di nuovo nella nostra lingua grazie all’inglese, che l’ha ripescata dal passato e le ha ridato una nuova vita. Ma la parola viene da monere, che significa “ammonire”, quindi siamo autorizzati a tradurre monitor con “ammonitore”, cioè lo strumento che ci avverte di quel che sta avvenendo (pag. 19). Ma è anche il caso di parole insospettabili: non direste mai che il mica che inseriamo così spesso nei nostri discorsi venga addirittura da Petronio, l’autore del Satyricon. Ciò che per noi è diventato un avverbio, che più o meno significa “affatto”, per i latini era invece un sostantivo che indicava la briciola di pane, dunque era qualcosa di insignificante e con i secoli si è trasformato in una negazione (pag. 22).

Ma non è certo per conoscere l’etimologia di molte parole che appartengono al nostro vocabolario che è bene apprendere il latino. Ho letto recentemente – scrive Feltri – che, mentre noi siamo fermi a “latino nelle scuole sì” e “latino nelle scuole no”, ci sono paesi all’estero in cui molte aziende apprezzano che nel curriculum di chi cerca lavoro ci sia la conoscenza del latino, e questo ha moltiplicato il successo di corsi e docenti che lo insegnano. Il motivo è che un buon traduttore di testi è solitamente un eccellente risolutore di problemi in tempi rapidi, che ha acquisito la capacità di tenere sotto controllo informazioni complesse. Pensate a cosa possa cercare un’azienda oggi e ditemi se non sono le caratteristiche di cui i selezionatori vanno più ossessivamente a caccia (pag. 31).

Per non parlare, poi, di un’altra delle prerogative di questa lingua… Devo il mio sconfinato amore per il latino alla caratteristica che a mio avviso merita più di tutte la nostra ammirazione, ossia la sua capacità di racchiudere in un numero ridottissimo di parole anche concetti intensi, profondi e complessi. Esprimere in italiano la stessa idea, e il principio è valido per molte altre lingue, richiederebbe invece lunghe perifrasi, e dunque un numero di parole molto più alto e quasi certamente più noioso (pag. 35).

E poi ci sono le citazioniparole magiche che evitano tutti i fronzoli e che sigillano il concetto, fin quasi a farlo sembrar immortale, come se una frase sola avesse il potere di farti viaggiare, di trasportarti prima nell’antichità dei gloriosi antenati e poi di nuovo ai tempi nostri. Non hai pronunciato che una frase, e sembra che sia tuo il merito di aver detto qualcosa che riesce a vivere e a dispensar saggezza da duemila anni (pag. 40).

Una lingua, dunque, il latino, caratterizzata da due fondamentali prerogative: articolate strutture sintattiche, che insegnano a razionalizzare, a risolvere informazioni complesse e a decodificare un messaggio mettendo in campo rigorosi processi di analisi (e qualche buona intuizione); un lessico vario, denso di significato e con una capacità di sintesi che punta dritto al cuore di ciò che si dice: tutto ciò fa sì che il latino si stagli come un gigante nell’epoca del politicamente corretto, che banalizza e impoverisce la lingua eliminando parole che improvvisamente non possiamo più pronunciare, poiché dobbiamo imparare a considerarle scorrette, termini che potrebbero offendere chi se ne sente colpito […]. Se io volessi tener conto, ogni volta che mi esprimo, della sensibilità di ciascuno degli abitanti di questo pianeta, chiosa Feltri, avrei di fronte a me una sola soluzione possibile: tacere, e dovrei farlo per sempre, perché a causa di qualunque parola, di qualunque mia frase apparentemente innocente, potrei trovare qualcuno che mi impone di non usarla, qualcuno che proverà a vietarmela in nome del principio indiscutibile che se ne sente turbato. Proprio non riusciamo a convivere tra di noi con l’idea di lasciarci in pace, abbiamo bisogno di sindacare, di indignarci, di contestare, e se possibile di proibire. Se tu parli in un modo che a me non piace, vuol dire che parli male e che sarai costretto a eliminare frasi dal tuo universo espressivo, oppure a modificarle come io ti ordinerò di fare, sulla base della mia morale (pag. 127). Un atteggiamento che è lontanissimo dalla libertà e dalla concretezza espressiva di questa lingua, nata da agricoltori e quindi diretta, incisiva, in grado di esprimere idee, concetti e valori senza avere il timore delle parole, che sono semplicemente il rivestimento del pensiero… una lingua, insomma, come ebbe modo di scrivere un grande autore della nostra letteratura, Giovannino Guareschi, precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto sonoro potrà parlare per un’ora senza dire niente. Cosa impossibile con il latino.

Gli aneddoti, le considerazioni, le riflessioni, i ricordi personali e della memoria collettiva che illustrano alcuni dei più importanti e celebri detti latini citati nel testo – dal do ut des al per aspera ad astra, dal carpe diem all’homo homini lupus – rendono davvero piacevole la lettura di questo saggio. Innamoratevi dunque, come Feltri, di questa lingua e della libertà di pensiero che essa dona. Perché amare e far amare il latino è uno dei regali più belli che si possono fare a sé stessi e agli altri…

TITOLO: La favola di Natale

AUTORE: Guareschi, Giovannino

EDITORE: Bur
GENERE: Racconto (favola)
PAGINE: 72

Un campo di concentramento tedesco, dicembre 1944

Questa favola è nata in un campo di concentramento del Nordovest germanico, nel dicembre del 1944, e le muse che l’ispirarono si chiamavano Freddo, Fame e Nostalgia (pag. 5). Così Giovannino Guareschi nella Premessa a questo intenso racconto che egli ha composto, trascrivendolo su gualciti e bisunti pezzetti di carta, in un campo di concentramento tedesco e che fu letto per la prima volta la sera della vigilia di Natale nella baracca in cui egli era il prigioniero 6865…

Ci sono esperienze – la malattia, la morte di una persona cara, la povertà… – che danno alla vita un sapore diverso. Tra di loro c’è sicuramente anche quella della prigionia. In prigionia – scrive infatti Guareschi sempre nella Premessa – anche i colori sono una favola, perché nel lager tutto è bigio, e il cielo, se una volta è azzurro, o se un rametto si copre di verde, sono cose di un altro mondo. Anche la realtà presente diventa nostalgia. Noi pensavamo allora alle cose più umili della vita consueta come meravigliosi beni perduti, e rimpiangevamo il sole, l’acqua, i fiori come se ormai non esistessero più (pag. 6). Guareschi è consapevole del fatto che spiegare cosa sia la prigionia è perfettamente inutile. Chi l’ha fatta lo sa, chi non l’ha fatta non lo può capire. Ma il valore della testimonianza è comunque fondamentale, perché è utile ricordare il male trascorso: ciò aiuta molto a sopportare i mali del presente e permette di ritrovare, tra le sofferenze trascorse, quei pensieri onesti e puliti che solo nella sofferenza possono vivere (pag. 73).

Un bambino, Albertino, la nonna, il cane Flik e una piccola Lucciola, la notte di Natale attraversano un bosco per andare dal babbo, prigioniero in un paese lontano. Cammina cammina (perché questa è proprio una favola!) i protagonisti vivono molte avventure e incontrano numerosi personaggi: una locomotiva, che li trasporta per un tratto, una gallina padovana residente all’estero, i Funghi Buoni e i Funghi Velenosi, la Formica, le Cornacchie, i guardiani del bosco, le Api e i Passerotti, Babbo Natale e la Befana, i re Magi e i Nanetti…

In questa atmosfera da favola la penna di Guareschi – a dispetto delle circostanze della composizione del racconto – fatica a trattenere la battuta di spirito e la comicità che la caratterizzano. Ne è un piccolo capolavoro la pagina in cui la poesia di Natale subisce l’opera della censura (che ricorda, ahinoi, le moderne cancellazioni!):

Cominciò a leggere i versi scritti sulle ali.

Din – don – dan: la campanella
questa notte suonerà…

“No!” disse. “Proibito fare segnalazioni acustiche notturne in tempo di guerra!”
E, con un pennellino intinto nell’inchiostro di Cina, cancellò molte parole. Poi, di lì a poco, scosse ancora il capo.

Una grande, argentea stella
su nel ciel s’accenderà…

“Niente! Contravvenzione all’oscuramento!” disse. E giù pennellate nere.

Latte e miele i pastorelli
al Bambino porteranno…

“Niente! Contravvenzione al razionamento!” borbottò. E giù ancora con il pennello.

I Re Magi immantinente
sul cammello saliranno…

“Niente!” urlò furibondo. “Basta coi re! Guai a chi parla ancora di re! “E giù pennellate grosse così. (pag.13)

La povera poesia riprende il suo cammino, ma ormai, così conciata, chiosa Guareschi, sembra una poesia ermetica!

Già, perché ora è il momento di nuove poesie, che descrivono impietosamente la guerra e il male che essa porta con sé:

Chi più pensa ai giocattoli
in questa triste Terra?
Tutti adesso lavorano
soltanto per la guerra!

Non più trenini elettrici
per i bambini buoni:
il ferro, ora, si adopera
solo per far cannoni!

Cercar cavalli a dondolo?
Sono pretese strane:
adesso, il legno, l’usano
per fabbricare il pane!
(pag. 18)

E così, in questa notte santa, nascono contemporaneamente il Dio della Pace e il Dio della Guerra, ognuno pronto a regnare nel suo paese. Il Paese della Guerra è tutto il contrario di quello della Pace: perché non c’è mai il sole e il cielo è color del catrame, e nei campi non fiori o messi spuntano, ma baionette; e sugli alberi maturano bombe. E gli uomini si vestono di ferro e i bambini non nascono sotto i cavoli, ma li fabbricano a macchina e perciò hanno tutti il cuore di ferro e la testa di ghisa (pagg. 37 – 38), in tutto simili al loro re, che, appena nato, è scaldato, nella sua culla corazzata, dal fiato micidiale di un lanciafiamme e dallo scappamento del carro armato… (pag.69); il suo corteggio è accompagnato da due feroci aquile che reggono fra gli artigli un drappo nero con una scritta a caratteri di sangue: “Guerra agli uomini di buona volontà” (pag.65).

C’è modo di vincere la guerra e il male? Sì. Ed è la speranza, quella che Guareschi volle tenere viva in quella drammatica vigilia di Natale recitando questa favola – accompagnata dalle musiche scritte da un suo compagno di prigionia, Coppola – a tutti coloro con cui condivideva questa terribile esperienza. Ci sono gli angeli, a proteggerli. Gran lavoro, durante la guerra, per l’aviazione del buon Dio. Angeli da ricognizione incrociano sui luoghi delle battaglie e segnalano eventuali concentramenti d’anime. Angeli da trasporto accorrono e caricano le anime e le portano in cielo. Angeli da caccia difendono le formazioni dagli attacchi di neri diavoli alati. Mentre gli Angeli bombardieri rovesciano sulle case, sopra gli ospedali, sopra i campi di prigionia grossi carichi di sogni, distruggendo così le opere nefaste della disperazione (pag. 33).

I sogni e la speranza vinceranno dunque il male? Nessuno ne è certo, ma tutti ce lo auguriamo. E anche Guareschi, che chiude la sua favola nel modo più tradizionale possibile, con una filastrocca che si fa portavoce di questo augurio:

Stretta la foglia – larga la via
dite la vostra – che ho detto la mia.
E se non v’è piaciuta – non vogliatemi male,
ve ne dirò una meglio – il prossimo Natale,
e che sarà una favola – senza malinconia:
“C’era una volta – la prigionia…” (pag. 72)

Una lettura semplice questa favola, ma densa di significato e capace di scaldare il cuore in questi giorni di festa in cui non tacciono le armi e i loro echi. Procuratevi questa edizione, illustrata con i disegni che ha fatto lo stesso Guareschi, che la impreziosiscono e che rendono questo racconto davvero speciale per grandi e piccoli…

TITOLO: La Dama e il Moro

AUTORE: Lomartire, Carlo Maria

EDITORE: Mondadori
GENERE: Romanzo storico / biografia romanzata / romanzo d’amore
PAGINE: 224

Milano, 1489

Leonardo dipinse La Dama con l’ermellino tra il 1488 e il 1490. Su questo gli storici dell’arte e gli studiosi del genio vinciano sono unanimi, così come concordano nel considerare Cecilia Gallerani, la giovanissima amante di Ludovico il Moro, la giovane che vi è ritratta. L’opera, olio su tavola, è considerata una delle più belle di Leonardo […]; ebbe subito un grande successo presso le corti italiane ed europee, tanto che molte aristocratiche, come Isabella d’Este, marchesa di Mantova, a cui Cecilia l’aveva mostrata, cercarono, inutilmente, di farsi ritrarre a loro volta da Leonardo. Per secoli il quadro ebbe una storia confusa, tanto che l’attribuzione a Leonardo venne dimenticata, finché venne definitivamente riconosciuta verso la fine del XVIII secolo. Durante la Seconda guerra mondiale, i proprietari di allora, per metterlo al riparo, lo nascosero nel castello di Wawel, a Cracovia, dove fu trovato dalle truppe tedesche e leggermente danneggiato, danno a cui poi si rimediò con un sapiente restauro. Passando quindi di mano in mano rimase in possesso di ricchi collezionisti polacchi finché nel 2016 fu ceduto al governo di Varsavia […]. Per molti La dama con l’ermellino è il ritratto più bello dipinto da Leonardo, più della Gioconda, che probabilmente deve il suo primato in termini di prestigio e la sua fama anche al fatto di trovarsi nel museo più famoso al mondo (pagg. 223 – 224).

La giovane Cecilia Gallerani (1473 – 1536) divenne l’amante di Ludovico il Moro (1452 – 1508) quando aveva solo sedici anni. Era di una bellezza molto particolare, conturbante, quasi inquietante […] il viso dall’ovale perfetto con gli zigomi alti e il mento affilato, la bocca ben disegnata con il labbro inferiore carnoso e naturalmente atteggiata a un sorriso lieve, quasi trattenuto. E poi lo sguardo, lo sguardo molto particolare e indecifrabile di quella giovanissima donna che tuttavia appariva già matura: uno sguardo che riusciva a combinare inspiegabilmente attenzione, intelligenza, arguzia, ironia e soprattutto una misteriosa ma intensa carica di sensualità, una promessa di erotismo velata da un sorriso appena accennato (pag.6). Insomma: bellissima, intelligente, attenta, curiosa, amante della poesia e del latino (in una città in cui per le donne era considerato più che sufficiente saper leggere, scrivere e fare di conto), Cecilia riesce ben presto a conquistare il cuore del reggente di Milano, già impegnato a contrarre un matrimonio politico con la giovane Beatrice d’Este, figlia di Ercole I, duca di Ferrara.

È proprio la consapevolezza dell’inevitabile fine che sarà costretto a imporre a questo sentimento così forte il motivo per cui Ludovico chiede a Leonardo da Vinci di ritrarre Cecilia: il vivo desiderio di serbarne il ricordo lo spinge ad affidare a Leonardo il compito di renderla sempre presente ai suoi occhi, oltre che al suo cuore. Cecilia comincia così a recarsi nello studio di Leonardo, che si trova di fianco al Duomo di Milano, per posare per lui. Questi incontri si trasformano ben presto in piacevoli momenti di confronto: Leonardo spiega a Cecilia che non intende realizzare un semplice ritratto del suo viso, ma un’opera in cui si rifletta l’intera sua persona, fatta di sentimenti, emozioni, aspirazioni…

Ed è questo che Ludovico vede quando può ammirare per la prima volta il ritratto della sua amata. Era lei, era Cecilia, che, col capo appena girato a sinistra, guardava verso di lui, vestita di un bell’abito di velluto azzurro dalle larghe maniche con grandi intarsi color cremisi. Al collo aveva una lunga collana di granati neri che egli riconobbe perché era uno dei suoi regali da lei più amato in quanto quelle pietre erano simbolo di fedeltà. Sul capo, come una cuffia, un sottilissimo velo del colore dei lunghi capelli castani stretto a chiuderle un’acconciatura a coazzone, cioè raccolti in treccia dietro la nuca, secondo la moda. Un sottile laccio nero sulla fronte tiene fermo il velo (pag. 76).

Ma l’elemento più intrigante del ritratto è sicuramente l’ermellino che Cecilia tiene in braccio. Leonardo scelse questo animale per diversi motivi. I bestiari medioevali lo consideravano un simbolo di purezza e di incorruttibilità, poiché esso fa di tutto per mantenere immacolato il suo mantello bianco: inseguito dal cacciatore preferisce farsi catturare piuttosto che sporcarsi fuggendo sotto terra. Dunque il candore dell’ermellino acquisisce, per Leonardo, un valore simbolico, poiché rimanda alla purezza e all’onestà dei sentimenti di Cecilia per il Moro. Inoltre il nome greco dell’ermellino è γαλῆ (galé), circostanza che creava un’evidente allusione al cognome di Cecilia. Va infine ricordato che Ludovico era stato insignito dal re di Napoli, Ferdinando I di Aragona, del titolo di cavaliere dell’Ordine dell’Ermellino: non a caso il piccolo ermellino è rappresentato con una zampetta anteriore sollevata, con la tipica posa con cui si ritraggono gli animali negli stemmi araldici. È dunque proprio il Moro colui che è mollemente adagiato tra le braccia di Cecilia, come Ludovico comprende non appena scorge il ritratto: Certo, sono io quell’ermellino, lo capisco anche dal modo in cui lei carpisce l’animale, quasi lo concupisce, mi trattiene con quella splendida mano. Proprio la mano destra, infatti, bianchissima e affusolata, era al centro del quadro, il punto più illuminato dal fascio di luce che entrava dalla finestra […]. Cosicché, appena Ludovico domanda: “Perché guarda verso sinistra? Che strana posizione, inconsueta: è come se aspettasse qualcuno che sta arrivando”, Leonardo risponde: “Aspetta voi, signore”. (pag. 77).

Il resto della ricostruzione storica del romanzo si sofferma sulla vita, sulla cultura e sulle guerre della Milano sforzesca, in cui Cecilia gioca un ruolo di primo piano fino alla sua morte (avvenuta a sessantrè anni, a Cremona) e in cui c’è spazio per riflessioni storiche di – purtroppo – sempiterna attualità (è costume tipicamente italiano dividersi di fronte al nemico per correre poi sul carro del vincitore, pag. 185). Ma sono certamente le pagine che raccontano l’amore tra la Dama e il Moro e la realizzazione dello splendido ritratto quelle che si imprimono maggiormente nella mente del lettore, rendendo ancora più grande l’ammirazione per questo meraviglioso capolavoro di Leonardo

TITOLO: La ragazza della palude

AUTORE: Owens, Delia

EDITORE: Solferino
GENERE: Romanzo di formazione / thriller
PAGINE: 412

Barkley Cove, North Carolina,1952.

Kya Clark, una bambina di sei anni, vive in una baracca nella palude, tra canneti e canali. La palude è tutto ciò che ha: la madre, i fratelli, il padre, a uno a uno l’hanno lasciata sola, per andare incontro al proprio destino. Ma Kya non ha paura: la palude e le creature che la abitano proteggono e aiutano questa piccola bambina vestita di stracci a crescere e a trasformarsi in una splendida ragazza. La fama della sua bellezza ben presto oltrepassa i pantani e la fa conoscere, nella vicina città di Barkley Cove, come la “ragazza della palude”. Ma quando da un acquitrino affiora il corpo di Chase Andrews, con cui Kya ha avuto una storia d’amore, gli abitanti di Barkley Cove non hanno dubbi: la colpevole dell’omicidio non può essere che Kya…

Ciò che rende questo romanzo unico e particolare è proprio questo: la ricerca del colpevole e la storia dell’omicidio restano in secondo piano, perché i due veri protagonisti del romanzo sono la natura e Kya.

La natura, in queste pagine, è tutt’altro che un semplice sfondo: l’autrice, Delia Owens, è infatti una zoologa prestata alla letteratura (questo è il suo romanzo d’esordio), che condivide con il lettore non solo le sue conoscenze in materia di flora e di fauna (ma prima di sedersi dietro la ruota del timone notò un soffio color nocciola sul sedile e subito riconobbe la tenera piuma del petto di una femmina di nitticora: una creatura schiva, dalle lunghe zampe esili, detta anche airone notturno, che vive sola al riparo della palude, pag. 400), ma anche l’amore che prova per loro. Le descrizioni della palude, il luogo in cui “cantano i gamberi” (titolo originale del romanzo), sono così precise e ricche di dettagli da trasformarla in un vero e proprio personaggio, personificandola in una creatura che sembra prendersi cura di Kya con quell’affetto materno che le è stato negato: a volte sentiva rumori notturni che non conosceva o sobbalzava per lo scoppio di un fulmine troppo vicino, ma ogni volta che inciampava, la terra era lì ad accoglierla, finché alla fine, senza dire nulla, il dolore al cuore se ne andò, come acqua infiltrata nella sabbia. Sempre lì, ma molto, molto in fondo. Le mani appoggiate su quella terra umida e palpitante; e il pantano diventò sua madre (pagg. 46 – 47).

Questa natura così selvaggia si rivela dunque una madre amorevole per la piccola Kya, la cui crescita è narrata con l’attenzione e la precisione di un romanzo di formazione: Kya impara non solo a conoscere le diverse specie di uccelli e di insetti che abitano la palude, studiandone i comportamenti e ritraendone l’aspetto, ma anche a relazionarsi con le sole creature che la circondano, come i gabbiani, che nutre con amore e di cui diventa amica, sicura che loro non l’abbandoneranno, come hanno invece fatto gli umani (quando si presentò sull’arenile, gli uccelli arrivarono in un vortice e si tuffarono come una folata. Lei si inginocchiò e buttò il cibo sulla sabbia. I gabbiani le si fecero intorno e Kya sentì le piume sfiorarle le braccia e le gambe, buttò la testa all’indietro e sorrise con loro. Anche se le guance erano rigate di lacrime, pag. 166).

Le pagine dedicate alle riflessioni e ai pensieri di Kya sono particolarmente intense, capaci di esplorare le emozioni di una giovane creatura che impara a conoscere la rabbia, la solitudine, il disprezzo, ma anche l’amore e la generosità degli altri personaggi del romanzo: Chase, che si prende gioco dei suoi sentimenti, Tate, che le insegna a leggere e a scrivere, Mabel e Jumpin’, che diventano la famiglia che non ha mai avuto, forse perché, proprio come lei, conducono una vita ai margini della società, che li respinge in quanto neri (Kya prese a sussurrare e Mabel la strinse a sé, contro il petto; la strinse forte e la cullò. All’inizio Kya rimase rigida, non essendo abituata a ricevere abbracci, ma Mabel non si lasciò scoraggiare e alla fine la ragazzina si ammorbidì e si abbandonò su quei cuscini, pag. 142).

Il romanzo di formazione si intreccia dunque con il thriller: questa intersezione è resa possibile anche dalla felice scelta narrativa di fondere due piani temporali, quello degli anni della crescita di Kya e quello dell’anno 1969, in cui si collocano la scoperta del cadavere, le indagini per l’omicidio e il processo che vede Kya come imputata. La capacità di ritrarre la crescita di questa giovane ragazza, che studia la natura, gli uomini e la società che la circondano con lo stesso sguardo indagatore e attento, fa sì che il lettore, a differenza di quanto succede con i classici thriller, si appassioni alla storia di Kya e dimentichi il bisogno di scoprire il colpevole: ma quando questo succederà, ancora una volta non resterà deluso…

Un consiglio: alla lettura del romanzo può far seguito la visione del film, omonimo, che ne è stato tratto, perché la regia e gli sceneggiatori hanno rispettato l’articolazione del romanzo e scelto degli attori che rendono giustizia a questo piccolo capolavoro di narrativa moderna.

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TITOLO: Diario di scuola

AUTORE: Pennac, Daniel

EDITORE: Feltrinelli
GENERE: Saggio / romanzo autobiografico
PAGINE: 241

Parigi, tra un passato da somaro e un presente da insegnante

Daniel Pennac – pseudonimo di Daniel Pennacchioni – è stato un pessimo studente, quello che noi insegnanti indichiamo con i termini scavezzacollo, sfaticato, fannullone o, più semplicemente, somaro. Il destino gli ha riservato il giusto castigo: diventare, a sua volta, un professore. In questo libro, a metà tra il saggio e il romanzo autobiografico, Pennac prova a riflettere sulla scuola dal suo vecchio punto di vista di somaro e da quello nuovo di docente, mescolando ricordi autobiografici e riflessioni pedagogiche, esperienze personali e vicende – divertenti o drammatiche – vissute dagli alunni che ha incontrato nei suoi lunghi venticinque anni d’insegnamento.

I temi affrontati sono dunque molteplici e si collocano in un orizzonte che comprende, oltre agli alunni e al loro rapporto con la scuola, il ruolo della famiglia, le istituzioni scolastiche, la società, i mezzi di comunicazione.

Pennac parte da una certezza: il primo a soffrire di essere un somaro è proprio l’alunno. Egli si ricorda bene lo sguardo preoccupato della madre e di coloro che erano pronti a scommettere sul suo inevitabile futuro fallimento. Per l’alunno diventa così normale fare i conti con la propria somaraggine e accettarla come parte integrante di sé… Sì, è la prerogativa dei somari, raccontarsi ininterrottamente la storia della loro somaraggine: faccio schifo, non ce la farò mai, non vale neanche la pena provarci, tanto lo so che vado male, ve l’avevo detto, la scuola non fa per me… La scuola appare loro un club molto esclusivo di cui si vietano da soli l’accesso. Con l’aiuto di alcuni professori, a volte (pag. 20).

Ma ci sono anche professori che salvano. È quello che è successo a Pennac: gli insegnanti che mi hanno salvatoe che hanno fatto di me un insegnantenon erano formati per questo. Non si sono preoccupati delle origini della mia infermità scolastica. Non hanno perso tempo a cercarne le cause e tanto meno a farmi la predica. Erano adulti di fronte ad adolescenti in pericolo. Hanno capito che occorreva agire tempestivamente. Si sono buttati. Non ce l’hanno fatta. Si sono buttati di nuovo, giorno dopo giorno, ancora e ancora… Alla fine mi hanno tirato fuori. E molti altri con me. Ci hanno letteralmente ripescati. Dobbiamo loro la vita. (pag. 33).

Degli eroi salvatori, dunque, questi poveri e spesso bistrattati professori. Pennac ora conosce bene quelle sensazioni che gli alunni nemmeno si immaginano che essi possano provare… Non sapevo, allora, che anche gli insegnanti ogni tanto la provano, questa sensazione di carcere a vita: rifriggere all’infinito le stesse lezioni davanti a classi intercambiabili, essere oppressi dal quotidiano fardello dei compiti da correggere… ignoravo che la ripetitività è la prima ragione addotta dagli insegnanti quando decidono di lasciare il lavoro (pag.48).

Il loro compito non è facile, perché ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un’orchestra che prova la stessa sinfonia. E se hai ereditato il piccolo triangolo che sa fare solo tin tin, o lo scacciapensieri che fa soltanto bloing bloing, la cosa importante è che lo facciano al momento giusto, il meglio possibile, che diventino un ottimo triangolo, un impeccabile scacciapensieri, e che siano fieri della qualità che il loro contributo conferisce all’insieme. Siccome il piacere dell’armonia li fa progredire tutti, alla fine anche il piccolo triangolo conoscerà la musica, forse non in maniera brillante come il primo violino, ma conoscerà la stessa musica (pag. 107).

I genitori, in questo difficile compito, spesso non sono d’aiuto. Ci sono coloro che difendono i figli a spada tratta (e al giorno d’oggi – dobbiamo purtroppo aggiungere – anche in modo violento) e coloro che li crocifiggono: in una pagina Pennac si diverte ad elencare le molteplici tipologie di madri che ha incontrato, da quella a pezzi, logorata dalla deriva del figlio, a quella umiliata dai consigli delle amiche i cui figli invece vanno bene, da quella furibonda, convinta che il figlio sia da sempre la vittima innocente di una coalizione di insegnanti di tutte le materie, a quella che inveisce contro la società che si sgretola… (pag.41)

Eppure sarebbe fondamentale allearsi, insegnanti e genitori, per salvare il maggior numero possibile di studenti. Uno studente dallo scarso profitto non solo sopravvive a sé stesso, ma diventa anche vittima di Nonna Marketing e di altri mondi ancora. Sono una nullità. Orbene, nella società in cui viviamo un adolescente tenacemente convinto di essere una nullitàquesto, almeno, l’esperienza vissuta ce lo ha insegnatoè una preda (pag. 65), che ricerca nell’apparenza, nei like, nel branco, nel riconoscimento da parte degli altri, quella forza che non ha saputo / voluto trovare nelle pagine dei libri.

Per salvare queste anime in difficoltà Pennac propone molteplici strategie: metodi di studio (per esempio, riscoprire la bellezza dell’imparare qualche testo a memoria – un esercizio inteso non come una sterile memorizzazione di contenuti, ma come una riflessione su quanto è stato scritto -), ma anche attività alternative, come la realizzazione di film, e persino la riscoperta della bellezza della matita, in una scuola completamente in balia della tecnologia, in cui si disimpara a scrivere già dalle scuole primarie e ci si affida a una tastiera che rende uguali tutte le grafie…

Salvare dal coma scolastico una sfilza di rondini sfracellate. Non sempre si riesce, a volte non si trova una strada, alcune non si ridestano, rimangono al tappeto oppure si rompono il collo contro il vetro successivo; costoro rimangono nella nostra coscienza, come le voragini di rimorso in cui riposano le rondini morte in fondo al nostro giardino, ma ogni volta ci proviamo, ci abbiamo provato. Sono i nostri studenti… (pag.241)

Questo è lo spirito che caratterizza ogni insegnante che abbia scelto il suo lavoro per passione. Questo è lo sforzo che ogni giorno compiono tantissimi insegnanti: nessuno degli studenti viene lasciato solo, perché c’è sempre qualcosa che ognuno sa fare e che gli piace fare, basta scoprire di che cosa si tratta. Il bravo insegnante è un artista nella trasmissione del suo sapere, un sapere così ben padroneggiato che ogni lezione può diventare una creazione, un momento unico e irripetibile.

Le pagine di Pennac, al di là di qualche momento autocelebrativo – così facile per la nostra categoria! – possono offrire utili spunti di riflessione a professori, alunni e genitori, per capire che c’è una medicina per il mal di scuola, ed è l’amore. L’amore per il proprio lavoro, l’amore per il sapere che viene regalato e la riconoscenza per chi si spende per educare i propri figli possono fare la differenza, consentendo di trasformare anche un somaro in un individuo capace di trovare la propria armonia nell’orchestra della vita…

E non c’è nulla di più bello, per un insegnante, di un alunno – bravissimo o somaro, non fa differenza – che ti porti per sempre nel suo cuore.

TITOLO: La sposa normanna

AUTORE: Russo, Carla Maria

EDITORE: Piemme – Pickwick
GENERE: Romanzo storico
PAGINE: 236

Palermo, novembre 1185

Costanza d’Altavilla, monaca di clausura ormai da molti anni e ultima discendente della dinastia normanna che siede sul trono di Sicilia, viene improvvisamente convocata a corte, per ricevere un annuncio che non avrebbe mai immaginato di ascoltare… “Oggi stesso abbandonerete il convento, dispensata dal voto, con la piena assoluzione del vescovo. Per un lungo periodo vi è stato concesso di vivere la vita a modo vostro. Siatene soddisfatta. In questo momento siete necessaria allo stato e farete il vostro dovere fino in fondo. Abbiamo ricevuto una proposta di matrimonio che giudichiamo molto vantaggiosa. Presto sposerete Enrico di Svevia, figlio dell’imperatore Federico. Vi è affidato il compito di mettere al mondo l’erede al trono. Un giorno, vostro figlio diventerà il sovrano più potente d’Europa, perché riunirà nelle sue mani la corona dell’impero e quella del regno di Sicilia.” (pag. 21).

Comincia così la nuova vita di una donna bella, colta, raffinata, fragile ma allo stesso tempo determinata, che non ha nulla a che spartire con il diciannovenne rozzo, grezzo e malvagio che è stata costretta a sposare… Il primo impatto con Enrico di Svevia l’aveva delusa e umiliata. Non si era mai presentato a porgerle il benvenuto, né all’ingresso della città né sul sagrato della chiesa. Non l’aveva nemmeno accompagnata all’altare, come avrebbe imposto il cerimoniale concordato con fatica fra le cancellerie delle due parti. Nel corso della cerimonia, come durante il banchetto, non le aveva mai rivolto la parola, anzi, l’aveva trattata con sprezzante distacco (pag. 47). Eppure Costanza trova nella ricerca della maternità che le è stata imposta e che tarda ad arrivare – a trentatré anni sembra quasi impossibile! – l’unica sua vera ragione di vita.

Le parole che rivolge al piccolo Costantino, il giorno in cui si accorge della sua presenza dentro di lei, sono piene dell’amore che solo una madre può provare per il proprio figlio: “Costantino, mio amore, mia vita, mio preziosissimo tesoro… io sono la tua mamma. Ora so che esisti, che vivi dentro di me. Non temere, avrò cura di te. Ti stupirò con la mia forza. Tu stesso me la infonderai. Ti proteggerò nel mio grembo e ti porterò alla luce, ti amerò come nessuno al mondo ha mai amato un altro essere umano. Sarai fiero di me. Tu sei mio, solo mio, un Altavilla, come tua madre, tuo nonno Ruggero, il tuo antenato Roberto. Diventerai forte e bellissimo, nobile e generoso. Di te parlerà il mondo intero. Ti difenderò, impedirò a chiunque di farti del male” (pag. 93).

Costanza non sa che queste sue parole si riveleranno profetiche: il piccolo Costantino, destinato a diventare l’imperatore Federico II di Svevia, nasce infatti in un luogo in cui si intrecciano gli intrighi e i giochi di potere di nemici pericolosissimi, come Gualtieri di Palearia, inviato papale, e Markwald di Anweiler, capitano delle truppe mercenarie, per cui Costanza e il figlio rappresentano un grave pericolo. Costanza protegge fino all’ultimo istante di vita il suo agnello tra i lupi che abitano la corte, sostenuta dall’amore materno e dalla sua incrollabile fede. E quando non potrà più farlo, Costantino riceverà dalla sua forza e dal suo ricordo gli strumenti che gli permetteranno di avere la meglio sui suoi nemici e di diventare il grande uomo che la storia ricorda…

Una figura davvero affascinante, quella di Costanza, che non lasciò indifferente nemmeno Dante Alighieri, che la volle collocare nel III canto del Paradiso, nel cielo della Luna, dove si trovano le anime che sono venute meno ai voti per scelta altrui, ma che nel loro cuore sono rimaste fedeli a Dio. Dice Dante di lei per bocca di un’altra donna che fu strappata a forza dal convento, Piccarda Donati:

Sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra delle sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest’è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò il terzo e l’ultima possanza.

Vediamone insieme la parafrasi.

Fu una monaca, e, come accadde a me, le fu tolta dal capo l’ombra del velo monacale. Ma dopo che fu di nuovo riportata nel mondo, contro la sua volontà e contro ogni norma onesta, nel suo cuore non fu mai libera dal velo monacale. Questa è la luce in cui brilla la grande Costanza, che dal secondo vento di Soave (una metafora per indicare un potere veloce e passeggero, poiché Enrico VI regnò per poco tempo) generò il terzo e ultimo imperatore della dinastia.

Anche in questi versi Costanza viene ritratta come una vittima innocente di complesse macchinazioni politiche: la luce della beatitudine che la circonda attesta la ricompensa divina per i torti subiti in terra, confermando la grandezza e la bellezza di questa figura femminile

TITOLO: Fiorire d’inverno

AUTORE: Toffa, Nadia

EDITORE: Mondadori
GENERE: Romanzo autobiografico
PAGINE: 142

Brescia, primi anni ‘80

Nadia Toffa – la Nanetta, per i suoi famigliari – è la tipica bambina che si definisce argento vivo: a quattro anni mette per la prima volta gli sci e impara a scendere a spazzaneve da sola, a nove si medica da sé un profondo taglio che si è procurata su una gamba lanciandosi in bicicletta, a tutta velocità, lungo la rampa dei box, corre all’impazzata, salta, fa la ruota, segue un corso di ginnastica artistica… insomma, non sta mai ferma. E capisce, fin da piccola, alcune sacrosante verità: ho capito che mi sarebbe convenuto imparare a non mollare mai, perché gli altri mi potevano mollare in ogni momento (pag.34) e che se non ti butti finisce che resti al palo ad aspettare. È chiaro che buttarsi fa paura, per questo bisogna coltivare tanto coraggio, così tanto da riuscire a spaventare la paura (pag.46).

E allora Nadia si butta. La sua curiosità, la sua voglia di esserci, di conoscere il mondo, di fare esperienze, si concretizzano ben presto nelle collaborazioni con le televisioni locali, in cui comincia la sua gavetta: dopo quattro anni di Retebrescia, nel 2009 eccola approdare a Le Iene, il famoso programma di Italia1. Le sue inchieste diventano subito famose: le truffe ai danni del Servizio Sanitario Nazionale, la ludopatia, la pedofilia online, la prostituzione minorile, le donne rapite dall’Isis, e, soprattutto, lo smaltimento dei rifiuti tossici nella Terra dei fuochi e l’incontro con don Patriciello e i malati di cancro che vivono in quei territori. Ma la fama non la cambia: all’inizio ti dici: “Mi chiedono la foto perché sono quella della TV.” Poi senza nemmeno accorgertene ti ritrovi a pensare: “Mi chiedono la foto perché sono io” e l’autocelebrazione diventa la tua vita. Solo che quando ti cacciano la gente comincia a chiedere le foto a un altro, quello che ti ha sostituito. Bisogna vigilare di continuo perché questo scivolamento impercettibile non accada mai. L’ho fatto ogni giorno, perché non volevo cambiare, non volevo che il mio personaggio televisivo diventasse la mia vita, non volevo perdere la mia normalità e insieme a questa le relazioni con le persone a cui voglio bene (pag.97).

Ho sempre pensato che la vita fosse disporre sul tavolo nel miglior modo possibile le carte che il destino ti ha dato. Invece all’improvviso ne arriva una che spariglia le altre e la vita è proprio come ci si gioca quell’ultima carta (pag. 127). Il 1º dicembre 2017, mentre si trova a Trieste per un’inchiesta, all’improvviso il malore, che finisce sulle prime pagine di tutti i giornali. Nadia rassicura, ma qualche tempo dopo svela la verità proprio in apertura di una puntata de Le iene: ha un cancro (diretta com’è, non usa giri di parole), si è curata, sta bene. Nadia ha deciso di trasformare la sua malattia in un’esperienza pubblica, per aiutare chi, come lei, sta combattendo quella battaglia, convinta che la fragilità non sia qualcosa né da temere né di cui vergognarsi: la malattia, il dover stare a casa per così tanto tempo, l’avere bisogno di aiuto, mi hanno costretta a riprendere contatto con la mia parte più tenera e indifesa, quella più umana. Era come se mi fossi dimenticata che la fragilità non è una debolezza, ma è la condizione dell’essere umano ed è proprio lei che ci protegge, perché ci fa ascoltare quello che proviamo, quello che siamo, nel corpo e nel cuore (pag. 28).

I lunghi giorni delle cure le sottraggono il suo lavoro e le sue amate inchieste. Eppure, anche in questi momenti Nadia riesce a far emergere la sua positività: sono contenta di non poter decidere il corso degli eventi, perché perderei le scoperte che a volte si nascondono tra le ombre del destino. La vita di ciascuno di noi è costellata di eventi che in prima battuta sono stati delle delusioni, e invece poi hanno portato a una rinascita, a un nuovo equilibrio. Penso che ci sia un ordine più saggio, che governa il mondo e di cui spesso ignoriamo il senso, la prospettiva. Per questo ho una grande fiducia, mi alzo sempre col sorriso. Certo che preferisco il sole, ma quando ci sei in mezzo scopri che anche la neve ha la sua bellezza, e invece, se fosse stato per me, magari non l’avrei mai fatta cadere (pag.73).

Qualche giorno fa, il 10 giugno 2024, Nadia avrebbe compiuto 45 anni. Avrebbe, perché il 13 agosto 2019 ha perso la sua battaglia contro la malattia. Eppure nemmeno questo l’ha fermata: le pagine di questo libro, che si legge d’un fiato in poche ore, sono così piene di vita e di amore per la vita che ce la fanno sentire ancora viva e presente, con la sua voce squillante e la sua risata fragorosa. La sua storia, aiutandoci a ricordare che c’è un centro e una periferia, ci costringe a mettere in atto una rivoluzione copernicana, come la definisce lei stessa: quando vai alla radice e poi torni alla periferia, non potrai più confonderla con il centro. Sai qual è l’origine di ogni cosa e la sua relazione con il tutto, quindi i pesi si riequilibrano. Poi nel tempo la routine attenua la sensazione iniziale di distacco ma la consapevolezza acquisita non si cancella. Ora so che questa realtà è periferia, mentre prima pensavo che fosse la mia vita. È una rivoluzione copernicana (pag. 138).

Questo il senso ultimo del bellissimo titolo che lei stessa ha scelto per la sua autobiografia. Fiorire d’inverno vuol dire cogliere l’opportunità di fiorire quando tutti gli altri dormono, aspettando il tepore della primavera. Vuol dire non perdere tempo prezioso, facendo propria la lezione degli antichi, che non a caso Nadia ha voluto nel frontespizio del libro (pag.11), in cui si legge questo celebre distico tratto dalle Odi del poeta latino Orazio:

Dum loquimur, fugerit invida aetas:
carpe diem, quam minimum credula postero.
Mentre parliamo, il tempo invidioso sarà fuggito:
cogli l’attimo e confida il meno possibile nel domani.

TITOLO: La migliore offerta

AUTORE: Tornatore, Giuseppe

EDITORE: Sellerio
GENERE: Romanzo d’amore / romanzo giallo
PAGINE: 93

Un’imprecisata città del centro Europa, in epoca contemporanea

L’esistenza di un film deriva spesso da un racconto orale. E non solo perché oggi si legge sempre di meno. Anche in passato le cose andavano allo stesso modo (pag. 9). Con queste parole il regista Giuseppe Tornatore comincia la sua prefazione a quello che, secondo l’unità di misura delle pagine fissata da Edgar Allan Poe, può essere definito un “romanzo breve”. È lo stesso Tornatore a spiegarci la sua genesi sempre nelle pagine che precedono l’inizio del racconto.

Nel mio archivio di annotazioni giaceva già dalla metà degli anni Ottanta, tra spunti e soggetti e altre suggestioni, la figura di una ragazza molto introversa, che in seguito a una serie di gravi problemi psicologici viveva reclusa in casa per paura di camminare lungo le strade e mischiarsi in mezzo agli altri (pag.10). Nasce così il personaggio di Claire Ibbetson, una misteriosa donna malata di agorafobia (la paura degli spazi aperti), che le impedisce di uscire dalla sua stanza, situata nell’antica dimora di famiglia.

Continua Tornatore: Un giorno […] mi sono imbattuto in un altro personaggio smarrito nel purgatorio di quella montagna d’appunti che mi porto dietro, anch’esso in attesa di essere coinvolto in un contesto narrativo che gli si confacesse. Si trattava di una figura maschile. Un uomo impegnato in un mondo che mi ha sempre attratto, quello dell’arte e dell’antiquariato (pag.10). È così che vede la luce il sessantenne Virgil Oldman, un rinomato e stimato battitore d’aste che sa ottenere sempre la miglior offerta che dà il titolo al romanzo. Virgil vive da solo, ossessionato dall’igiene (non tocca nulla – tranne le opere d’arte – senza guanti), completamente assorbito dal suo lavoro e dalla sua preziosa collezione di ritratti femminili, che custodisce in una stanza blindata della lussuosa dimora in cui abita: contemplare i volti di quelle 279 donne che lo guardano in modo enigmatico e amoroso è il suo unico piacere.

Benché – prosegue Tornatore – i due personaggi non avessero alcuna relazione, essendo nati non solo in tempi diversi ma da attrattive e interessi totalmente dissimili, cominciai a farli interagire tra loro, seguendo un procedimento analogo a ciò che nel linguaggio musicale si chiama “contrappunto doppio”. Cioè inscrivere una melodia in un’altra, far convivere due temi diversi in una composizione ulteriore che finisce per esaltare in una nuova forma le potenzialità espressive ed armoniche dei singoli disegni melodici. […] E una volta innestate l’una nell’altra, la vicenda della ragazza agorafobica e quella del battitore d’aste hanno miracolosamente originato la completezza narrativa che da anni inseguivo e non trovavo (pag. 12).

Due anime solitarie, dunque, che s’incontrano per motivi di lavoro: Virgil viene infatti incaricato telefonicamente da Claire di provvedere alla vendita di tutto ciò che si trova nella sua villa. Il loro rapporto cresce e si sviluppa da lontano: prima per telefono e poi dietro una porta, attraverso la quale la donna comunica con lui. Il cuore di Virgil si lascia sempre più sedurre e incatenare da quella voce così fragile, intensa e sofferente, che gli crea intorno una sorta di ragnatela, dalla quale finisce per essere avvolto. Ben presto Virgil comincia così ad avvertire un sentimento che sembra essere molto vicino a quell’amore che egli non ha mai provato, se non per l’arte, e che lo costringe a fare i conti con la vita vera, pericolosamente intrecciata proprio all’arte. La speranza, per il povero Virgil, è che siano vere le parole del suo amico Robert: in ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico (pag. 85): di più non si può dire, perché questa è una vicenda molto semplice e scarna, più ricca certamente in quel suo sottotesto che soltanto il finale, nel rispetto della tradizione del racconto giallo, ha il compito di svelare (pag. 13).

Una volta terminata la lettura del romanzo non si può non vederne la splendida realizzazione filmica, che ha anche il pregio di esaltare l’arte in ogni sua forma (i quadri, le statue, gli abiti, gli orologi, gli automi…): come scrive lo stesso Tornatore, il suo è un film sull’arte intesa come sublimazione dell’amore, ma anche un film sull’amore inteso come frutto dell’arte (pag. 13). E il vero senso di quest’ultima affermazione si svelerà completamente solo al termine della lettura o della visione del film…

TITOLO: Storia di una ladra di libri

AUTORE: Zusak, Markus

EDITORE: Frassinelli
GENERE: Romanzo storico
PAGINE: 562

Germania, 1939.

Liesel è una bambina tedesca di nove anni. Viaggia con la madre e il fratellino su un treno che li porterà a Monaco, dalla famiglia adottiva che si prenderà cura di loro, perché la madre – sola – non è più in grado di accudirli. Ma il fratellino è troppo affamato e debilitato: il suo percorso terreno termina proprio durante questo viaggio. E così Liesel incontra per la prima volta non solo la Morte, ma anche i libri, che le cambieranno la vita: sarà infatti proprio il casuale ritrovamento di un piccolo libro (il Manuale del necroforo, caduto nella neve a uno dei becchini chiamati a seppellire il fratello) a trasformarla in una ladra di libri. Solo i libri – e le loro parole – le permetteranno di sopravvivere all’orrore della Germania nazista, perché solo i libri – e le loro parole – sanno donare, a chi li ama, i loro frutti migliori, arrivando a salvare la vita e l’anima delle persone…

Ma questo romanzo non tesse solo le lodi delle parole. Sono state proprio le parole, diventate propaganda, a dare la forza e il potere a Hitler e a trascinare il suo popolo in una pulizia etnica senza senso: lo descrive in modo chiaro uno dei principali personaggi di questo romanzo, l’ebreo Max, che disegna per Liesel, nei suoi lunghi giorni senza sole, nascosto in una cantina, una storia strana, ma purtroppo vera: Sì, il Führer decise di dominare il mondo con le parole. […] Il suo primo piano d’attacco consisteva nel seminare parole nel maggior numero possibile di luoghi del suo Paese. Le seminò giorno e notte, e le coltivò. Le guardò crescere, finché, alla fine, in tutta la Germania si potevano vedere grandi foreste di parole… Era una nazione di pensieri coltivati (pag.457).

Non tutti i tedeschi, però, soccombono al potere delle cattive parole. Hans, il padre adottivo di Liesel, è diverso da loro. Liesel nota subito la singolarità dei suoi occhi che sono fatti di bontà e d’argento. Di un argento soffice, liquido (pag. 34). Proprio dal suo nuovo papà Liesel apprende un’importante verità: le parole possono salvare o condannare, essere piene d’amore o di odio. Dipende da come le si usa: Ho odiato le parole e le ho amate, scrive Liesel. Spero che siano tutte giuste (pag.541). Che Liesel abbia imparato a farne buon uso lo testimonia ancora Max, quando scrive di lei che I MIGLIORI erano quelli che comprendevano l’autentico potere delle parole. Riuscivano ad arrampicarsi sugli alberi più alti. Tra gli scuotitori di parole c’era una ragazzina minuta ed esile. Era considerata la migliore della sua regione, perché si rendeva conto di quanto impotente potesse essere una persona SENZA parole. Era affamata di parole (pag. 458).

Una delle particolarità di questo romanzo (la struttura narrativa frammentata, la presenza di parti fumettistiche, i titoli interni ai capitoli, le frequenti anticipazioni…) è senza dubbio il narratore, che, come si comprende sin dalle prime pagine, è la Morte. È ben diversa da come viene presentata di solito ed è lei stessa a dirlo al lettore: Non possiedo una falce. Indosso una veste nera con cappuccio solo quando fa freddo. Non ho quel viso da teschio che sembrate divertirvi ad appiopparmi. Vuoi sapere qual è il mio vero aspetto? Mentre proseguo il racconto, cerca uno specchio (pag.315).

Triste, malinconica, solitaria, la Morte fornisce la chiave di lettura di questa vicenda, rammaricandosi per tutto quello che ha dovuto vedere in quegli anni. È stato troppo anche per lei, che scende sulla terra sforzandosi di concentrarsi sui colori, perché pensare a quello che succede le dà troppo dolore: Devi sapere che, a dispetto di tutti i colori che sfiorano o si avvinghiano a ciò che vedo in questo mondo, spesso quando un uomo muore vedo, soltanto per un attimo, un’eclissi. Ne ho viste a milioni. Ho visto più eclissi di quante vorrei ricordare (pag.11).

Le domande più forti e le osservazioni più ricche di significato di questo romanzo emergono proprio dal continuo colloquio che la Morte crea con il lettore: se da un lato la Morte riconosce agli uomini grandi qualità (Mi meraviglia sempre la forza degli esseri umani, che riescono a rialzarsi, seppure barcollando, persino quando fiumi di lacrime inondano i loro volti pag. 549) dall’altro resta stupita per la loro stupidità: Nel corso degli anni ho visto tanti giovani che credono di correre gli uni contro gli altri. Non è così. È verso di me che corrono (pag. 180).

La storia di Liesel è il resoconto di una vita ricostruita in un piccolo libro nero, scritta in uno scantinato mentre fuori piovono bombe: essa affida al lettore un’intensa vicenda che appassiona e commuove, che parla di morte ma anche di amore, di parole e di gesti, di uomini veri e di comparse… ma soprattutto non è che una della miriade di storie che la Morte porta con sé, ognuna a suo modo straordinaria. Ciascuna di loro rappresenta un tentativo – un faticoso tentativo – di dimostrare che la vostra esistenza di uomini vale la pena di essere vissuta (pag.14).

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