Il fanciullo e l’averla
in TESTI / UMBERTO SABA / L’ETA’ CONTEMPORANEA / LETTERATURA ITALIANA
In questa originale lirica, che somiglia a una favola per bambini, il poeta Umberto Saba dimostra come il desiderio, a volte, possa degenerare in smania di possesso…
Vago2 del nuovo – interessate3 udiva
di lei, dal cacciatore, meraviglie –
quante promesse fece per averla!
5L’ebbe; e all’istante l’obliò4. La trista5,
nella sua gabbia alla finestra appesa,
piangeva sola e in silenzio, del cielo
lontano irraggiungibile alla vista6.
Si ricordò di lei solo quel giorno
10che, per noia o malvagio animo, volle
stringerla in pugno. La quasi rapace7
gli fece male e s’involò8. Quel giorno,
per quel male l’amò senza ritorno9.
Da U. Saba, Tutte le poesie, Mondadori, Milano
Saba affiancò alla sua attività primaria di poeta la scrittura di una ricca produzione di prose, raccolte in Scorciatoie e raccontini (1946) e Ricordi – Racconti (1956). Non meraviglia, dunque, che egli scriva tredici versi endecasillabi (divisi in tre quartine, più un endecasillabo isolato) per raccontare una sorta di favola sul desiderio.
La prima strofa illustra l’antefatto: un fanciullo, dopo aver sentito un cacciatore raccontare meraviglie su un’averla, comincia a desiderare intensamente questo uccello e fa mille promesse per averlo. Il suo desiderio si configura, dunque, come forte curiosità e brama di possesso, come una vaghezza del nuovo, dell’insolito e dell’ignoto che è destinata ad avere una breve durata, perché svanisce non appena si entra in possesso di ciò che si desidera.
Infatti, dopo un breve stacco sospensivo, la vicenda narrata continua e sembra subito finire: il fanciullo l’ebbe; e all’istante l’obliò. Da questo momento inizia la descrizione delle sofferenze dell’oggetto del desiderio, l’averla, che viene personificata, in quanto le sono attribuiti sensazioni e sentimenti umani: essa, prigioniera nella sua gabbia, guarda il cielo (lontano irraggiungibile, con un doppio aggettivo che vuole mettere in evidenza il senso di estraneità da quello che fino a poco prima è stato il suo ambiente naturale, ma che ora non le appartiene più) e si domanda con tristezza se mai potrà tornarvi, con un’immagine del male di vivere che è sicuramente una delle più belle di tutta la poesia di Saba.
A questo punto riprende la narrazione della vicenda, che sposta l’attenzione del lettore di nuovo sul fanciullo: egli, a causa della noia o del suo animo malvagio, si ricorda dell’averla solo per stringerla in pugno. Ma accade l’imprevedibile: l’uccello becca il fanciullo e fugge via.
La conclusione, appositamente staccata dal resto della narrazione da una pausa che le conferisce maggior forza, evidenzia un’amara e inspiegabile realtà: l’uomo è attratto da ciò che non ha o da ciò che ha perduto, mentre trascura ciò che è nelle sue mani. Di qui la logica conclusione della favola / poesia, la morale, che resta sottintesa: dobbiamo imparare a non dare per scontate le cose che abbiamo, perché spesso ci accorgiamo del loro valore solo quando le abbiamo perse per sempre.
Questi versi si fanno dunque portavoce di una storia e di un contenuto semplici perché il messaggio che il poeta affida loro deve essere un insegnamento di vita vera, proprio come quelli che gli antichi consegnavano alle favole. Saba ritiene infatti che la poesia non debba essere solo canto, ma un modo per avvicinare i propri simili e per condividere con loro momenti di vita in grado di illustrare valori e virtù che gli uomini non devono mai dimenticare. Lo dice chiaramente in un’altra sua lirica intitolata Il canto dell’amore: Se questa folla qui domenicale / mi fosse estranea, mi fosse remota / un cimbalo ¹ sarei che senza grazia / risuona, un’eco vana che si perde, parole da cui emerge in modo chiaro l’impegno morale che egli affida ai suoi versi.
Per ottenere questo scopo il suo canto si fa semplice – quasi musicale – grazie a una sapiente disposizione delle rime (in ogni quartina, infatti, il primo e il quarto verso rimano tra loro) e ai numerosi enjambement, che legano i versi creando un movimento ritmico continuo.
Ma in questo canto semplice e musicale non mancano, come al solito, degli artifici retorici, che riguardano le rime stesse, il lessico e la sintassi. Per quanto concerne le rime, sono presenti due rime particolarmente importanti, una rima equivoca (averla nella prima occorrenza è il nome dell’uccello, nella seconda il verbo avere più il clitico la), che ribadisce l’identità tra l’oggetto del desiderio e il desiderio stesso, e una rima identica in epifora, cioè in chiusura di verso, preceduta dallo stesso aggettivo per far comprendere che è proprio quel giorno il momento in cui il fanciullo prende coscienza della propria superficialità e leggerezza e – soprattutto – comprende di aver perso per sempre ciò che aveva così ardentemente desiderato; nel lessico è possibile notare la consueta commistione di parole trite e quotidiane (gabbia, finestra, pugno…), di vocaboli che derivano dalla tradizione poetica (l’aggettivo vago, di petrarchesca memoria) e di parole di uso non comune (come il verbo obliare); nella sintassi, infine, risulta evidente che l’ordine delle parole nel verso è continuamente determinato dall’uso di due figure retoriche di posizione, l’anastrofe e l’iperbato. La prima, che consiste nell’inversione dell’ordine consueto di due parole, è evidente, per esempio, nel verso 1 (in S’innamorò un fanciullo d’un’averla, il soggetto dovrebbe precedere il verbo); il secondo, che rovescia l’ordine sintattico di un’intera frase, è per esempio riconoscibile nei versi 2-3 (interessate udiva di lei, dal cacciatore, meraviglie, che nella parafrasi va riscritto come udiva dal cacciatore meraviglie interessate di lei): entrambe le figure retoriche hanno lo scopo di posizionare in primo piano i vocaboli su cui il poeta desidera richiamare l’attenzione del lettore, in questo caso l’amore malato del fanciullo, che si tramuterà ben presto in una colpevole dimenticanza dalle tristi conseguenze.
Note
1. Averla: un uccello carnivoro della specie dei passeri, che si nutre di insetti e di piccoli invertebrati; ha il becco a uncino, unghie robuste, zampe lunghe e coda a ventaglio. Si pronuncia avèrla, con la e aperta.
2. Vago: desideroso.
3. Interessate: va unito a meraviglie: le qualità dell’uccello sono interessate perché il cacciatore le esalta per venderlo, ma anche e soprattutto perché suscitano l’interesse del ragazzino.
4. Obliò: dimenticò.
5. La trista: l’infelice
6. Del cielo… vista: alla vista del cielo irraggiungibile.
7. Quasi rapace: questo tipo di uccello è piuttosto aggressivo; la prigionia, inoltre, non ne ha certo addolcito il carattere.
8. S’involò: volò via.
9. Senza ritorno: anche se sapeva che non sarebbe mai più tornata.
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