La considerazione della donna nella filosofia, nell’arte e nella letteratura ellenistica
in EPITAFI DI ETA’ ELLENISTICA DEDICATI A FIGURE FEMMINILI / APPROFONDIMENTI / LETTERATURA GRECA
Nell’età ellenistica la posizione della donna cambiò, in conseguenza o in concomitanza di quanto abbiamo visto nelle precedenti lezioni, anche nell’ambito del pensiero filosofico, dove essa fu oggetto di una notevole rivalutazione, nell’arte, in cui appare rappresentata con un gusto e una sensibilità nuovi, e infine anche nella letteratura, dove le figure femminili ebbero un ruolo decisamente diverso rispetto a quello marginale che avevano avuto nelle opere dei periodi precedenti.
LA DONNA NEL PENSIERO FILOSOFICO
Il filosofo greco Aristotele dimostra l’inferiorità biologica della donna rispetto all’uomo in due opere, il De Generatione animalium (767 b 8) e il De partibus animalium (653 a 27, in cui si discute addirittura delle minori dimensioni del cervello femminile rispetto a quello maschile): tale inferiorità biologica giustificherebbe e legittimerebbe, secondo il filosofo, la convinzione, espressa nella Politica (1254 b), che la donna debba avere una posizione subordinata in seno alla società e alla famiglia. Aristotele, dunque, non apprezza – a differenza di quanto fa, per esempio, Senofonte nell’Economico – né la (γυνή) οἰκονόμος, la massaia, cioè la donna incaricata dell’amministrazione della casa, né la (γυνή) τεκνοποιός, la generatrice di figli, dando luogo all’immagine femminile più arida che si ricordi, il cui massimo elogio è, secondo lui, il silenzio.
Questa posizione è ancora condivisa nel primo periodo dell’età ellenistica: per esempio Teofrasto, uno dei discepoli di Aristotele, pensa che un’istruzione maggiore a ciò che è indispensabile πρός οἰκονομίαν (per la gestione della casa) possa trasformare le donne in esseri indolenti, linguacciuti e intransigenti. L’idea aristotelica (e platonica) che lo Stato possa intervenire sulla famiglia per fissarne i ruoli dei componenti (naturalmente a scapito della donna) è ancora parzialmente sostenuta solo dagli Stoici, preoccupati per il nuovo ruolo che la donna cominciava ad avere e decisi a riportarla nella condizione a lei precedentemente assegnata.
Il definitivo abbandono di questa concezione così penalizzante si colloca nella seconda metà del III secolo a.C., nel momento cioè in cui cessò di esistere il problema del sovrappopolamento, uno dei motivi fondamentali per cui i filosofi autorizzavano l’intromissione dello Stato nella vita della famiglia. I Cinici e gli Epicurei, infatti, si interessarono poco dei problemi demografici e sociali e non ebbero difficoltà, come già visto nella precedente lezione, ad ammettere anche le donne tra i propri seguaci, considerandole adatte, proprio come gli uomini, alla filosofia.
Questa apertura nei confronti della donna non fu però sempre accompagnata da una positiva considerazione del matrimonio: il cinico Diogene (Diog. Laert. VI, 54), per esempio, lo riteneva una creazione artificiale e quindi nociva per l’uomo; lo stoico Zenone (Diog. Laert. VII 131) rispolverò addirittura la vecchia idea platonica (presentata nella Repubblica) della comunità delle donne. Questo giudizio negativo fu determinato anche dal fatto che i valori che avevano sostenuto il matrimonio stavano ormai venendo meno: agli ideali comunitari subentrarono infatti un desiderio di soddisfazione personale e una mentalità egoistica, che causarono, nel II secolo a.C., il disastroso quadro di cui parla Polibio (XXXVI 17, 5-10). Il rifiuto del matrimonio (e, di conseguenza, della nascita dei figli), l’infanticidio e la pratica dell’esposizione (cioè l’abbandono dei neonati, soprattutto di sesso femminile) – che andarono ad aggiungersi a un oggettivo peggioramento delle condizioni di vita, dovuto alle guerre e alle devastazioni del territorio – portarono in breve tempo la Grecia a una spaventosa situazione di scarso popolamento.
Proprio per questo motivo lungo questo arco di tempo (metà del III secolo a.C. – II secolo a.C.) si passò da posizioni che svalutavano il matrimonio a quelle volte a rivalutarlo, nel tentativo di porre rimedio alla situazione che si era venuta a creare. In un primo momento esso fu riproposto come il principale dovere di un cittadino verso lo Stato (posizione, questa, propria della scuola peripatetica) e, in seguito, in una luce nuova, come strumento di creazione di un’unione fondata non più sul rispetto reciproco ma sull’amore vicendevole. Questa riabilitazione fu propria della scuola stoica e in particolare di Antipatro di Tarso, che riunì gli argomenti favorevoli al matrimonio in un discorso in cui lo propose come un valore patriottico, civile e religioso.
Alla luce di quanto detto si può quindi osservare che, a partire dal III secolo a.C., ai filosofi appare sempre più necessario ricostruire la società sulla base della famiglia: il matrimonio diviene un imperativo morale e la donna è considerata uguale all’uomo, che si unisce a lei perché, come dice Antipatro, τέλειος οἶκος και βίος οὐκ ἄλλως δύναται γενέσθαι ἤ μετά γυναικός καί τέκνων (non ci possono essere una casa e una vita compiuti senza una moglie e dei figli).
LA DONNA NELL’ARTE
Nel mondo classico le rappresentazioni statuarie di nudo femminile furono, al contrario di quello maschile (assai diffuso perché considerato emblema di virilità e di coraggio), decisamente limitate e sempre giustificate dal fatto di essere quelle di dee oppure di donne in condizioni particolari (per esempio, la Niobe morente); le rappresentazioni – molto più frequenti – che risultano dalla pittura vascolare, ritraevano invece, assai probabilmente, delle prostitute.
Fu solo a partire dal IV secolo a.C. che la figura femminile cominciò a essere rappresentata in modo consistente; dalla fine dello stesso secolo il nudo femminile divenne un soggetto comune e la donna fu rappresentata con una sensualità e una carica di erotismo completamente sconosciuti nell’epoca precedente (basti pensare alla Venere di Cirene, a quella Capitolina o alla Menade dormiente).
In questo stesso periodo, inoltre, troviamo meno frequentemente rappresentata l’attività omosessuale maschile, perché l’attenzione è ora concentrata su tenere scene eterosessuali, un passaggio che starebbe a indicare che il rapporto omosessuale, spesso considerato, a torto o a ragione, una delle cause della scarsa considerazione delle donne, perse importanza a favore del rapporto eterosessuale, coniugale o meno.
Sembra quindi di poter dedurre, anche per quanto riguarda il campo artistico, che siano presenti sia una rivalutazione della donna – la cui bellezza viene apprezzata e rappresentata senza più remore o giustificazioni (ci si compiace infatti del nudo femminile senza che questo debba essere determinato da circostanze esterne) – sia del rapporto di coppia: l’incontro di un uomo e una donna viene sempre più spesso presentato come il frutto di un sentimento e accompagnato – non a caso – da un elemento passionale e completamente nuovo, il bacio, simbolo di reciproco amore.
LA DONNA NELLA LETTERATURA
La psicologia femminile – che aveva interessato, nell’età classica, solo Euripide – trova, nell’età ellenistica, parecchi cultori: maestro in questo settore fu, senza dubbio, Apollonio Rodio, che fece della descrizione dei dubbi e dei tormenti di Medea un valido esempio di conoscenza dei sentimenti umani, femminili in particolare.
Le nuove tendenze letterarie confermano, infatti, un cambiamento di interessi. La satira delle donne e del matrimonio, per esempio, abbondantemente sfruttata nel V secolo da Aristofane, viene ripresa solo occasionalmente da Eroda in alcuni suoi mimi (tra cui il V e il VI): essa lascia il posto alla poesia di argomento amoroso, che era invece stata ben poco presente nel periodo precedente.
Il tema dell’amore coniugale, già elogiato nella poesia omerica, ritorna dunque nel III secolo, a segnare la rottura con il passato. Gli sposi si amano e vivono con dolore il momento della separazione: basti pensare alle trame della Commedia Nuova, a Callimaco (che rappresenta Berenice afflitta per la partenza dell’Evergete), all’idillio XXIV di Teocrito, che racconta l’amore coniugale di Alcmena e Anfitrione. Questo ritorno è dovuto al fatto che l’amore occupa un posto di rilievo nella vita dei Greci del III secolo a.C.: essi, ormai esclusi da una partecipazione politica attiva, ricavano infatti più tempo per sé e per la propria vita privata. L’amore diventa quindi il protagonista, nella vita come nella letteratura: esso non solo ispira il nuovo materiale lirico, drammatico e narrativo, ma si introduce anche nell’eredità dei tempi precedenti, per modificare avventure e fisionomia dei personaggi. I rudi guerrieri omerici diventano così dei conquistatori di cuori (risalgono a questo periodo, infatti, la fama di Achille come seduttore di Deidamia e amante di Briseide e Polissena e la leggenda dell’amore di Ulisse per Polimela, figlia di Eolo); gli dei, come gli uomini, subiscono un travestimento galante.
Non solo. Le donne, in età classica, potevano uscire di casa solo in rare occasioni (nozze, processioni e feste pubbliche). In realtà anche in quell’epoca nel demo, dove tutti si conoscevano, la clausura delle donne non era troppo severa: in città, invece, il farsi visita tra signore era concesso solo alle vicine (e in ogni caso quando le donne non erano più giovani). Di solito le donne che uscivano di casa erano accompagnate da almeno due cameriere, secondo un uso che risaliva a Omero e che era osservato anche dalle cortigiane. Le testimonianze letterarie in proposito sono molto chiare: l’oratore Demostene, per esempio, nella sua orazione intitolata Contro Macartato (62), ricorda la legge con cui Solone permise la partecipazione ai funerali, oltre che alle parenti strette, solo a donne che avessero compiuto il sessantesimo anno d’età; un frammento (fr. 207 Blass) di un altro oratore, Iperide, afferma che una donna che esce di casa dovrebbe essere in un periodo di vita in cui coloro che la incontrano non le chiedano di chi sia moglie ma di chi sia madre.
In parecchie opere letterarie ellenistiche compaiono invece accenni a una nuova libertà di movimento delle donne, segno dunque che ormai anche i poeti erano costretti a tener conto dei cambiamenti che si erano verificati. Teocrito, per esempio, ci presenta, in due dei suoi Idilli, situazioni decisamente impensabili per l’epoca precedente: nel II, Le incantatrici, la giovane Simeta si reca a una festa con un’altra donna, e nel XV, Le Siracusane, due donne di Alessandria vanno ad assistere – sempre da sole – alla festa di Adone; anche nel IV mimiambo di Eroda due donne si recano da sole al Tempio di Asclepio.
Fu soltanto questa nuova condizione a rendere possibile la diffusione del genere del romanzo, poiché esso prevedeva, per le proprie eroine, una grande libertà di movimento; sempre nel romanzo si viene a concretizzare la possibilità di un rapporto tra uomo e donna che sia paritario – almeno nelle intenzioni – per intensità di sentimenti e reciprocità di diritti e doveri. L’eroina di questo nuovo genere letterario rispecchia, dunque, un mutamento nella condizione mentale della donna, sempre più avviata a rivendicare un margine di autonomia e a vederlo accettato dall’opinione pubblica.

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