Il Medioevo
e la tradizione classica
in IL MEDIOEVO / LETTERATURA ITALIANA
La massima fioritura della letteratura latina, il cosiddetto “periodo aureo”, si colloca tra l’84 a. C. e il 14 d. C. e coincide con una delle stagioni più intense e travagliate della vita politica romana. La concezione del mondo, della società e della vita di cui questa letteratura si fa portavoce è straordinariamente compatta e solida: pur passate attraverso secoli di esperienze storiche e d’influenze assai diverse, regioni lontanissime tra loro, ma appartenenti all’Impero romano, avevano la consapevolezza di essere membri di una comunità fondata su alcuni principi sentiti e coltivati ovunque con ugual intensità, al punto che la civiltà nata dopo l’XI secolo sarà definita romanza.
Una volta caduto l’Impero romano, nell’Occidente diviso e travagliato da invasioni esterne e da lotte intestine l’eredità culturale latina, che già si andava dissolvendo negli ultimi secoli dell’Impero, passò, di fatto, all’unica istituzione stabile rimasta, la Chiesa, interessata al mantenimento di una cultura indispensabile per l’amministrazione pratica, per la predicazione e per la liturgia. Per questo motivo durante tutto il Medioevo, anche nei secoli più bui (in particolare il V e l’VIII) nei monasteri – che, come abbiamo visto, sorsero numerosi per impulso di San Benedetto da Norcia – non venne mai meno l’attività di conservazione dei testi classici (copiati dapprima su pergamena e poi, dal XII secolo, su carta), che erano destinati alle biblioteche ecclesiastiche e solo più raramente a istituzioni laiche (per esempio alle corti e alle università). La cultura classica continuò dunque a vivere per tutto il Medioevo, anche se considerata in modi diversi.
I TESTI CLASSICI E IL MONDO CRISTIANO
Già in epoca pagana non erano mancati i rilievi sull’immoralità di alcuni miti, che raccontavano uccisioni, vendette e peccaminose storie d’amore. Non desta dunque meraviglia il fatto che le prime generazioni cristiane si siano poste il problema dell’opportunità di continuare a coltivare una letteratura idolatrica e spesso opposta alla morale cristiana: lo stesso Dante Alighieri, pur ammirando la cultura romana, ricorda, nella sua Commedia, le ere degli dei falsi e bugiardi (Inferno I, 72).
Alcuni ecclesiastici erano più timorosi e dubbiosi di altri di fronte all’antica cultura pagana: per questo essi suggerivano di limitarne l’apprendimento alla parte più tecnica e strumentale, cioè il lessico e la grammatica, per insegnare un latino ormai ben lontano dalle ricercatezze stilistiche del periodo aureo; altri, al contrario, non temevano che l’istruzione potesse continuare come prima dell’evangelizzazione, prevedendo, oltre allo studio della grammatica, anche quello dei testi.
Nel lungo dibattito che ne seguì occupano un posto di primo piano le posizioni di San Gerolamo e Tertulliano, che disprezzavano e condannavano l’antica cultura (in realtà testimoniando indirettamente, con le loro posizioni esacerbate, il fascino proibito che essa esercitava all’epoca) e quelle di Sant’Agostino e Basilio di Cesarea, che si schierarono invece dalla parte di coloro che sostenevano l’utilità e l’opportunità di mantenere viva e vitale la cultura classica.
Tertulliano (164 – 240 circa), famoso per le sue conoscenze in ambito retorico, filosofico, storico e giuridico, fu certamente uno dei più accaniti nemici della cultura classica: nel suo Apologeticum (Discorso in difesa) egli, per demolire le accuse rivolte al Cristianesimo, sostiene con toni particolarmente accesi che è la religione pagana a essere immorale, la cultura pagana a raccontare storie di incesti e di omicidi, i pagani a essere empi, poiché veneravano l’Imperatore più di Zeus Olimpio.
San Gerolamo (347 ca – 420), l’autore della Vulgata (la traduzione della Bibbia in un latino comprensibile ai parlanti comuni, a partire dal testo greco dei cosiddetti Settanta, i primi traduttori dell’Antico Testamento dall’ebraico), sentiva come una colpevole idolatria la sua inevitabile ammirazione per gli autori pagani e per le loro opere: egli racconta infatti di aver sognato di essere schiaffeggiato da un angelo che gli diceva Ciceronianus es, non christianus (Sei un discepolo di Cicerone, non un cristiano). Per questo egli invita a evitare la lettura delle opere dei poeti greci e latini (che secondo lui nascondono sotto una bella forma contenuti peccaminosi o ingannevoli, che egli definisce cibo del diavolo), a meno che essa non abbia lo scopo di ricavare del materiale da usare contro i gentili (i non cristiani).
Al contrario Sant’Agostino (354 – 430), autore di numerosi e pregevoli testi filosofici, teologici, mistici e polemici (il più famoso dei quali sono le Confessioni, un’autobiografia in cui racconta la sua giovinezza dissipata, la conversione al cristianesimo e il momento del battesimo ricevuto da Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, nel 387), in uno dei suoi testi, il De doctrina Christiana (Sulla dottrina cristiana), un trattato in quattro libri sui modi più corretti per avvicinarsi alle Sacre Scritture, dimostra che il pensiero classico – che resta comunque inferiore a quello cristiano – contiene dei precetti morali assai utili e persino delle verità che riguardano il culto dell’unico vero Dio: questi precetti e queste verità non sono certamente stati istituiti dagli uomini, ma sono stati a loro donati dalla Provvidenza di Dio. Di qui la teorizzazione del sacro furto, una pratica che consente di leggere e di studiare i testi classici per recuperare i precetti morali e i riferimenti al culto di un unico Dio che i pagani ci hanno inconsapevolmente lasciato. Un ulteriore passo in questa direzione viene fatto anche in un’altra delle sue opere, il De civitate dei (Sulla città di Dio), in cui la civiltà greco – romana viene avvertita come preparatoria di quella cristiana, secondo la lettura teocentrica della storia che abbiamo avuto modo di vedere nella lezione precedente.
TESTO: AGOSTINO, Il sacro furto
Altrettanto interessante il comportamento indicato da Basilio di Cesarea, vissuto nel IV secolo e considerato uno dei più famosi Dottori o Padri della Chiesa, pensatori e religiosi (vissuti fino all’VIII secolo) che con le loro opere contribuirono a definire i principi della religione cristiana e a difendere la fede dagli attacchi dei filosofi pagani. Basilio sostiene, nel suo Discorso ai giovani, che lo studio degli autori pagani non è necessario solo per imparare bene la lingua nelle sue forme più pure ed eleganti, ma anche – e soprattutto – per conoscere quale fu il mondo prima della redenzione. Quest’approccio consente di recuperare i valori positivi presenti in questi testi (considerati una sorta di introduzione alla rivelazione) e anche di combattere gli avversari della religione cristiana con i loro stessi mezzi.
TESTO: BASILIO DI CESAREA, L’esempio delle api
L’ammirazione per la cultura greco-romana, riletta nell’ottica agostiniana, portò a una certa stasi in campo letterario, poiché si riteneva che gli esempi classici fossero dei modelli insuperabili, cioè delle auctoritates, secondi solo alle auctoritates per eccellenza, i testi sacri – sede della rivelazione di Dio agli uomini – e ai Padri della Chiesa. L’auctor (il cui nome deriva dal verbo latino augere, accrescere, aumentare) è infatti colui che accresce il sapere e la saggezza di chi lo ascolta e a cui si riconosce un’autorità assoluta, nella convinzione che la verità sia già stata rivelata in modo definitivo e che dunque su di essa non si possa discutere, in quanto all’uomo non è consentito andare oltre i limiti stabiliti da Dio, come ben sa l’Ulisse dantesco. È questo il motivo per cui gli autori del Medioevo non vollero essere originali nei contenuti e lasciarono le loro opere per lo più anonime: essi si consideravano infatti soltanto i depositari della tradizione, i custodi di un sapere che andava protetto, capito ma non accresciuto (un atteggiamento che noi, viziati dalla mentalità romantica, che rivendica a gran voce il valore della singola personalità, non riusciamo a comprendere).
Tra le auctoritates vi erano Cicerone, per le sue opere di retorica e i dialoghi, Seneca, per la sua moralità (nelle interpretazioni più esasperate egli è addirittura considerato un cristiano!), Virgilio, per lo stile e la presunta cristianità, Ovidio, per l’esaltazione del sentimento d’amore, Orazio, per la morale, Lucano, per la celebrazione di alcuni valori dell’epica (onore, rispetto, devozione al proprio signore…) e infine Stazio, per il gusto dell’avventura. Nasce proprio da questa reverenza e ammirazione il concetto di ipse dixit (lo ha detto lui) inizialmente utilizzato per Aristotele e col tempo applicato alle parole e alle teorie di chiunque venisse ritenuto meritevole di una fiducia incondizionata.
Tutti questi autori divennero modelli di stile e fonti di citazioni; di ognuno di loro si studiava la Vita (una sorta di biografia, solitamente ricca di aneddoti e a volte decisamente romanzata), l’Accessus (un’introduzione all’opera) e il Commento (che ne suggeriva la chiave di lettura).

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