La volpe e l’uva (32 Ch)
in TESTI \ ESOPO \ LA FAVOLA \ LETTERATURA GRECA
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In questa favola Esopo racconta ciò che accade a una volpe affamata che cerca di prendere dell’ uva.
᾿Αλώπηξ λιμώττουσα, ὡς ἐθεάσατο ἀπό τινος ἀναδενδράδος βότρυας κρεμαμένους, ήβουλήθη αὐτῶν περιγενέσθαι καὶ οὐκ ἠδύνατο. Ἀπαλλαττομένη δὲ πρὸς ἑαυτὴν εἶπεν· «Ὄμφακές εἰσιν».
Οὕτω καὶ τῶν ἀνθρώπων ἔνιοι, τῶν πραγμάτων ἐφικέσθαι μὴ δυνάμενοι, δι’ ἀσθένειαν τοὺς καιροὺς αἰτιῶνται.
Una volpe affamata, quando vide dei grappoli d’uva pendere da un pergolato, volle prenderli, ma non ci riuscì. Allontanandosi, disse tra sé: “Sono grappoli acerbi”.
Allo stesso modo alcuni (degli) uomini, non potendo raggiungere i (loro) scopi, danno la colpa dell’incapacità alle circostanze.
(traduzione di A. Micheloni)
Chi non conosce questa favola? Essa è così nota da essere diventata il simbolo di tutti coloro che, non potendo ottenere qualcosa per incapacità, invece di prendere atto dei propri limiti, preferiscono incolpare le circostanze oppure svilire quanto si erano prefissati di ottenere.
La sua diffusione in ogni tempo e in ogni letteratura è evidente, per esempio, dalla citazione che ne fa Giovanni Verga in una delle sue novelle, Cavalleria rusticana: quando uno dei personaggi dice “La volpe, quando all’uva non ci poté arrivare…”, Verga fa rispondere a un altro “Disse: come sei bella, racinedda mia!”, battuta in cui il vocabolo siciliano e l’aggiunta di un complimento – assente nella versione di Esopo – dimostrano che la favola era così nota e diffusa da poter essere ritoccata a proprio piacimento senza tema di renderla irriconoscibile. La popolarità e l’essenzialità di questo racconto – che non si perde in inutili dettagli narrativi – hanno determinato anche la nascita di veri e propri modi di dire (“la volpe e l’uva”, “non è ancora matura”, “fare come la volpe con l’uva” …) che sono diventati di uso molto comune nel quotidiano per la loro immediatezza e icasticità.
La scelta di rendere protagonista di questa favola, tra tutti gli animali, proprio la volpe non è certamente casuale. La volpe, infatti, è il simbolo della furbizia: in questa circostanza essa vuole provare a essere furba addirittura con sé stessa, dimostrando, però, di non essere in grado di fare esercizio di autocritica. In questo suo maldestro tentativo di assolversi dalle proprie colpe essa fa capire che l’intelligenza e la scaltrezza valgono poco, quando sono messe al servizio dell’inganno.
La morale si fa dunque portavoce di una condanna nei confronti dell’atteggiamento della volpe e di chi, come lei, non riconosce la propria inadeguatezza. Ma c’è stato anche chi ha voluto rileggere questa favola in un modo diverso, per ricavarne un insegnamento positivo, sulla scorta di un famoso modo di dire, volere è potere, che in questa favola è invece contraddetto dalla netta opposizione che si crea tra l’espressione volle prenderli e non ci riuscì, contraddizione fortemente sottolineata da un ma. Si tratta di Gianni Rodari (1920 – 1980), giornalista e scrittore, che, trasferendo il contenuto di questa favola esopica in una filastrocca, lo usa per dare un incoraggiamento a perseverare a chi non riesce a ottenere i risultati che si è prefissato:
e questa è quell’uva
che la volpe della favola
giudicò poco matura
perché stava troppo in alto.
Fate un salto
fatene un altro.
Se non ci arrivate
riprovate domattina
vedrete che ogni giorno
un poco si avvicina
il dolce frutto;
l’allenamento è tutto.
Analisi del testo
λιμώττουσα: participio presente con valore aggettivale. Il verbo λιμώττω è un denominativo dal sostantivo λιμός, fame.
ἐθεάσατο: terza persona singolare dell’indicativo aoristo primo (o debole) del verbo θεάομαι, vedere. È il verbo da cui deriva il vocabolo teatro, il luogo in cui si va a vedere uno spettacolo.
ἀναδενδράδος: questo vocabolo indica il pergolato su cui si fa solitamente arrampicare l’albero della vite; esso è formato dalla preposizione ἀνὰ, sopra, e dal sostantivo δένδρον, albero.
κρεμαμένους: participio presente medio passivo dal verbo κρέμαμαι, pendere. Ha valore predicativo, poiché dipende dal verbo di percezione ἐθεάσατο.
ήβουλήθη: terza persona singolare dell’indicativo aoristo primo passivo – con valore attivo – del verbo βούλομαι, volere. L’aumento di questo verbo, dopo il IV secolo a.C., si trova indifferentemente in ἐ o in ἠ.
περιγενέσθαι: infinito aoristo secondo (o forte) del verbo περιγίγνομαι, costruito con il genitivo “di contatto” (αὐτῶν), come è consueto con i verbi che indicano contatto fisico (e allora la traduzione del verbo è prendere); se invece si preferisce attribuire a questo verbo il valore di avere la meglio, il genitivo si spiega come costruzione propria dei verbi che indicano superiorità.
καὶ: in questo caso meglio attribuirgli il valore avversativo di ma, per sottolineare l’opposizione tra volere e potere.
ἠδύνατο: terza persona singolare dell’imperfetto del verbo δύναμαι; anche in questo verbo l’aumento si trova indifferentemente in ἐ o in ἠ. La scelta dell’imperfetto al posto dell’aoristo è stata fatta per sottolineare il valore durativo dell’azione, perché la volpe ha evidentemente fatto più di un tentativo per raggiungere l’uva.
εἶπεν: terza persona singolare dell’aoristo forte del verbo λέγω. La – ν efelcistica è dovuta alla presenza di un segno di interpunzione forte.
Ὄμφακές: ὂμφαξ, usato come aggettivo, vale immaturo, acerbo; quando invece ha valore di sostantivo indica l’uva acerba.
Οὕτω καὶ: la formula più consueta per introdurre la morale (la favola dimostra che) è stata in questo caso sostituita, con una variatio, da una forma comparativa, decisamente più rapida.
τῶν ἀνθρώπων: è un genitivo partitivo – retto da ἔνιοι – il cui valore può anche non essere evidenziato nella traduzione.
ἐφικέσθαι: infinito aoristo forte del verbo ἐφικνέομαι, che regge il genitivo “di contatto” τῶν πραγμάτων.
δυνάμενοι: participio congiunto a ἔνιοι; è possibile attribuirgli un valore ipotetico, come lascia intendere la presenza della negazione μὴ, che si usa per esprimere, oltre che un’opinione personale o il volere, anche un’eventualità.
δι’ἀσθένειαν: questo vocabolo (composto da ἀ privativo e dal sostantivo σθένος, forza fisica) è passato nella nostra lingua mantenendo intatto il suo significato: astenia in italiano indica infatti una condizione di debolezza (che può derivare da malattie).
αἰτιῶνται: terza persona plurale dell’indicativo presente del verbo αἰτιάομαι (denominativo dal sostantivo αἰτία, causa): nel linguaggio processuale è il verbo tecnico dell’accusa.
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