LA SOFISTERIA Logo 240x110 FFE5AD
LA SOFISTERIA - PRESENTAZIONELA SOFISTERIA - NOTIZIELA SOFISTERIA - ACCEDILA SOFISTERIA - BIBLIOTECALA SOFISTERIA - REGISTRATILA SOFISTERIA - CERCA NEL SITOLA SOFISTERIA - EMAILLA SOFISTERIA - CANALE YTLA SOFISTERIA - SPOTIFYLA SOFISTERIA - CANALE INSTAGRAM

grammatica e letteratura italiana | latina | greca

LA SOFISTERIA Logo 370

grammatica e letteratura italiana | latina | greca

LA SOFISTERIA - PRESENTAZIONELA SOFISTERIA - NOTIZIELA SOFISTERIA - ACCEDILA SOFISTERIA - BIBLIOTECALA SOFISTERIA - REGISTRATILA SOFISTERIA - CERCA NEL SITO
LA SOFISTERIA - EMAILLA SOFISTERIA - CANALE YTLA SOFISTERIA - SPOTIFYLA SOFISTERIA - CANALE INSTAGRAM

Fabulae IV, 3

in TESTI \ FEDRO \ L’ETÀ GIULIO CLAUDIA \ LETTERATURA LATINA

La volpe e l’uva

LA SOFISTERIA icona 163x255 6E0813
Quando non si riesce a ottenere ciò che si vuole, sarebbe giusto riconoscere i propri limiti e accettare l’insuccesso. Ma spesso è più comodo trovare delle scuse e imputare le cause del proprio fallimento alla sorte, agli altri o alle circostanze. È quello che fa questa volpe, protagonista di una celebre favola di Fedro…

Fame coacta vulpes alta in vinea
uvam adpetebat, summis saliens viribus;
quam tangere ut non potuit, discedens ait:
“Nondum matura est; nolo acerbam sumere”.
Qui facere quae non possunt verbis elevant,
adscribere hoc debebunt exemplum sibi.

Una volpe, spinta dalla fame, in un pergolato
cercava di prendere dell’uva, saltando con tutte le forze;
ma, siccome non riuscì a toccarla, andandosene disse:
“Non è ancora matura; non voglio prenderla acerba”.
Coloro che svalutano a parole le cose che non possono fare,
dovranno riferire questo ammaestramento a sé stessi.

(traduzione di A. Micheloni)

La volpe nelle favole rappresenta l’astuzia: essa, di solito, tesse inganni a danno degli altri e scopre inganni fatti a suo danno. In questa favola, invece, la volpe, con una buona dose di ipocrisia, pur di non ammettere il proprio fallimento (il primo passo per tentare di migliorarsi!), prova addirittura ad ingannare sé stessa. La favola non ha bisogno di una morale enunciata con la classica formula introduttiva: quanto raccontato è talmente chiaro che basta un rapido accenno a coloro che, proprio come la volpe, non esitano a denigrare ciò che non possono ottenere.

Questa favola è un chiaro esempio di ciò che i Latini intendevano per vertere. Quando un autore identificava un modello a cui fare riferimento, non ne creava una imitatio, cioè una versione in grado di riprodurne fedelmente contenuti e concetti, ma dava vita a una vera e propria aemulatio, cioè a una sorta di competizione tra imitatore e imitato. Fedro, con la scrittura de La volpe e l’uva, ha realizzato una aemulatio del suo modello di riferimento, la versione esopica di questa favola. Rileggiamola insieme:

Una volpe affamata, quando vide dei grappoli d’uva pendere da un pergolato, volle prenderli, ma non ci riuscì. Allontanandosi, disse tra sé: “Sono grappoli acerbi”.
Allo stesso modo alcuni (degli) uomini, non potendo raggiungere i (loro) scopi, danno la colpa dell’incapacità alle circostanze.

Creare una aemulatio vuol dire confrontarsi, tanto per cominciare, con il lessico del modello di riferimento. In questo caso, per esempio, in latino manca il vocabolo pergolato, che è stato invece utilizzato da Esopo: Fedro supplisce a questa mancanza con la perifrasi in un’alta vigna, che gli consente di collocare i fatti nello stesso spazio tratteggiato dal modello, poiché le viti alte sono quelle che vengono fatte arrampicare su un pergolato. La presenza dell’aggettivo alta gli consente inoltre di non tradurre il participio pendenti, che è invece presente nel testo greco.

Per quanto riguarda i contenuti, Fedro decide di dare maggior risalto ad alcuni momenti della narrazione esopica, per esempio agli sforzi fatti dalla volpe per raggiungere l’uva: per evidenziarli al meglio egli ricorre alla figura retorica dell’allitterazione, avvicinando dei vocaboli, summis saliens viribus, in cui la ripetizione della lettera –s sembra quasi voler riprodurre foneticamente l’affanno della povera volpe, che Esopo, al contrario, non sottolinea affatto.

Per dare ancora maggior risalto a questa fatica, Fedro decide di non liquidare il fallimento dell’impresa in due parole, come fa Esopo (ma non ci riuscì): egli riferisce infatti l’insuccesso (una vera disfatta, perché la volpe non solo non riesce a prendere l’uva, ma non arriva nemmeno a toccarla!) con una struttura sintattica complessa, una subordinata causale che contiene anche un nesso relativo.

Ma ciò che nelle due versioni della favola cambia in modo davvero significativo è il commento della volpe: lo stringato “Sono grappoli acerbi” di Esopo diventa, in Fedro, una riflessione completa, in cui il verbo nolo, non voglio, mette ancor meglio in risalto il tentativo della volpe di auto ingannarsi, come se l’allontanamento dipendesse esclusivamente da una volontà propria e non – piuttosto – da un clamoroso insuccesso…

Come si può vedere da questo breve confronto, Fedro ha saputo dare alla sua versione della favola un sapore nuovo e diverso, pur mantenendosi fedele al modello di riferimento. L’aemulatio gli ha consentito di rendere il racconto più vicino al suo mondo e alla sua epoca: scrivendo questa favola egli aveva certamente ben presenti gli arrampicatori sociali dei suoi giorni, che si sforzavano di ottenere posizioni di prestigio più con le parole che con i fatti, e che, in caso di fallimento, si guardavano bene dall’assumersene la responsabilità…

Risulta altrettanto interessante la rivisitazione di questa favola fatta dal celebre favolista francese Jean de La Fontaine (1621 – 1695), che leggiamo nella traduzione di Emilio De Marchi:

Una volpe, chi dice di Guascogna
e chi di Normandia,
molto affamata, andando per la via,
in un bel tralcio d’uva s’incontrò,
così matura e bella in apparenza,
che damigella subito pensò
di farsene suo pro.
Ma dopo qualche salto,
visto che troppo la vite era in alto,
pensò di farne senza.
E disse: “È uva acerba, un pasto buono
per ghiri e per scoiattoli”.
Ciò che non posso aver, ecco ti dono!

J. de La Fontaine, Favole, trad. E. De Marchi, Einaudi, Torino

La volpe della Francia di Luigi XIV diventa lo strumento che serve al favolista non solo per dare una bella lezione agli uomini del suo tempo, ma anche per lanciare delle frecciate ai Guasconi e ai Normanni, entrambi famosi per le loro vanterie. La Fontaine, fingendo di voler essere preciso riportando le fonti consultate (chi dice di Guascogna, chi di Normandia), riesce a colpire entrambi i popoli, ritraendoli come altezzose damigelle di corte che, non potendo ottenere ciò che desiderano, arrivano addirittura a svilirlo come non adatto al proprio status (un pasto buono per ghiri e per scoiattoli). Anche in questo caso il modello di Esopo e di Fedro è stato rivisitato in modo da mettere in evidenza il messaggio morale in un contesto che si attaglia perfettamente al mondo in cui vive l’autore.

Analisi del testo

METRO: senario giambico

Coacta: nominativo singolare femminile del participio perfetto del verbo cogo; esso, congiunto a vulpes, ha valore passivo e regge l’ablativo di causa efficiente fame, posto in apertura di componimento, in posizione enfatica, perché è la causa che mette in moto l’intera narrazione.

Alta in vinea: anastrofe (cioè inversione dell’ordine consueto delle parole) per in alta vinea. Il vocabolo vinea di solito indica la vigna o il vigneto: in questo caso, però, l’attributo alta fa capire che si tratta di un pergolato, perché in una vigna, in cui le viti rasentano il terreno, non ci sarebbe alcuna necessità di saltare.

Adpetebat: il verbo mantiene, in questo verso, il suo valore proprio: ad + peto vuol dire, alla lettera, compiere un movimento verso. L’imperfetto qui utilizzato è quello di conato, che sottolinea un tentativo ripetuto e non riuscito. Dall’espressione appetere aliquid, desiderare qualcosa, deriva il vocabolo italiano appetito, che indica il desiderio di cibo.
Summis: l’aggettivo summus è il superlativo della preposizione supra: esso, che insieme a viribus forma un complemento di modo, è stato scelto per mettere in risalto gli sforzi compiuti dalla volpe, che cerca di saltare il più in alto (questo il significato letterale di summus) possibile. Contribuiscono alla sua enfatizzazione l’allitterazione della –s e la collocazione del participio saliens, che crea un iperbato (cioè la separazione di due parole normalmente unite, come, appunto, aggettivo e sostantivo), che ha proprio la funzione di porre in primo piano l’aggettivo rispetto al sostantivo.
Saliens: participio presente – congiunto al sostantivo vulpes – del verbo salio. Dal tema del supino di questo verbo è stato formato il frequentativo salto, continuo a saltare, da cui è derivato il verbo italiano. Il verbo salio ha dato il nome ai Salii, i dodici sacerdoti di Marte e di Quirino che custodivano gli ancilia, gli scudi sacri: si credeva che uno di questi fosse caduto dal cielo – come presagio della futura grandezza di Roma – mentre regnava Numa Pompilio, uno dei sette re. Nei mesi di marzo e di ottobre i Salii celebravano le feste Saliari, durante le quali portavano in processione gli scudi danzando (il verbo salio allude proprio a questo momento della festa, in cui i sacerdoti danzavano, come scrive Varrone, ab salitando, saltando) e cantando inni, i Carmina saliaria, che costituiscono una delle più antiche testimonianze della letteratura latina.
Viribus: ablativo plurale del sostantivo vis, roboris, forza, appartenente alla terza declinazione, da non confondere con il sostantivo vir, viri, uomo, della seconda declinazione (il cui ablativo plurale è viris).

Quam: è un nesso relativo, che in questo caso è bene sciogliere con un valore avversativo: sed eam.

Tangere: la scelta di questo verbo mette in risalto l’inutilità dei gesti della volpe, che non solo non riesce a prendere i grappoli, ma non arriva neppure a toccarli. Dal supino tactum deriva il sostantivo italiano tatto.
Ut: in questo caso meglio attribuirgli un valore tra il temporale e il causale.
Discedens: la scelta del participio presente, che indica sempre contemporaneità, vuole evidenziare che la volpe si allontana pronunciando queste parole.
Ait: terza persona singolare del perfetto di aio, difettivo, cioè con una coniugazione incompleta.
Nondum: con il seguente nolo crea una forte allitterazione della – n, che sottolinea la bugia che la volpe va dicendo a sé stessa (non è maturanon voglio).
Acerbam: l’aggettivo va considerato un complemento predicativo dell’oggetto di un uvam sottinteso.
Qui: il pronome relativo manca del suo antecedente, il pronome determinativo ii, soggetto della proposizione principale, omesso perché nello stesso caso del relativo. Lo stesso vale per quae, a cui manca l’antecedente ea, anch’esso omesso per identità di caso con il relativo.
Verbis: ablativo strumentale.

Elevant: il verbo è formato dalla preposizione e e dal verbo levo: alla lettera, pertanto, il suo significato è togliere via.

Debebunt: questo verbo di solito viene usato nel senso di essere debitore, più che in quello di dovere; l’idea del dovere morale, infatti, è solitamente espressa con la perifrastica passiva.

La Sofisteria

L’ETÀ GIULIO CLAUDIA in LETTERATURA LATINA

LA SOFISTERIA - GRAMMATICA ITALIANA - IMG 800x534

GRAMMATICA ITALIANA

LA SOFISTERIA - SCUOLA DI SCRITTURA - IMG 800x534-kk

SCUOLA DI SCRITTURA

LA SOFISTERIA - GRAMMATICA LATINA - IMG 800x534

GRAMMATICA LATINA

GRAMMATICA GRECA

LA SOFISTERIA - LETTERATURA ITALIANA - IMG 800x534

LETTERATURA ITALIANA

LECTURA DANTIS

LETTERATURA LATINA

LETTERATURA GRECA