Fabulae I, 7
in TESTI \ FEDRO \ L’ETÀ GIULIO CLAUDIA \ LETTERATURA LATINA
La volpe e la maschera tragica (I, 7)
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In questa favola di Fedro una volpe vede per caso una maschera tragica.
Personam tragicam forte vulpes viderat:
“O quanta species – inquit – cerebrum non habet”.
Hoc illis dictum est, quibus honorem et gloriam
Fortuna tribuit, sensum communem abstulit.
Una volpe aveva visto per caso una maschera tragica:
“Oh, quanta apparenza – disse – non ha cervello!”
Questo è stato detto per coloro a cui la sorte ha elargito
onore e gloria, (ma) ha tolto il buon senso.
(traduzione di A. Micheloni)
Una delle principali caratteristiche delle favole di Fedro è la brevitas: in questa favola una sola breve scena, che occupa i primi due versi, è in grado di presentare una situazione capace di trasmettere un forte insegnamento morale, enunciato negli altri due versi. Esso è rivolto a tutti coloro a cui la sorte ha assegnato un’elevata posizione sociale, alte cariche o incarichi lavorativi di prestigio in modo del tutto immeritato, perché non hanno qualità, competenze o capacità: la loro vanagloria viene ridicolizzata dalle parole di una volpe, che riflette ad alta voce vedendo per caso una maschera tragica…
La maschera aveva, nel teatro antico greco e latino, un ruolo fondamentale, per almeno tre motivi.
Il primo era la necessità di conformare il viso di eroi ed eroine a precisi canoni estetici, facilmente rappresentati dalla maschera (anche perché i ruoli femminili erano assegnati a uomini, dal momento che le donne non potevano fare le attrici: esse, infatti, cominciarono a recitare come mime solo a partire dall’età imperiale).
Il secondo era la necessità di rendere marcati i lineamenti, in modo che potessero essere visibili anche da coloro che sedevano nelle posizioni più lontane dal palcoscenico.
Il terzo era legato all’acustica, poiché la voce dell’attore – incanalata da una sorta di imbuto nella fessura che rappresentava la bocca – grazie alla maschera giungeva più nitida e forte agli spettatori che sedevano negli ampi teatri all’aperto in cui avvenivano le rappresentazioni. Ne è una conferma anche il nome latino che indica la maschera, persona, che deve essere ricondotto al verbo personare, che alla lettera significa proprio fare risuonare.
Le maschere, che ricoprivano tutto il viso e la testa dell’attore e che erano provviste di capelli, erano di due tipi: la maschera tragica, persona tragica, che raffigurava un viso addolorato e serio, e la maschera comica, persona comica, che rappresentava un viso buffo e ridanciano.
La volpe, dunque, imbattutasi per caso in una di queste maschere, non trattiene la sua ammirazione per la bellezza dell’oggetto, ma, essendo furba per antonomasia, non si ferma all’apparenza: e così, girata la maschera con le sue zampe, smaschera… la maschera, accorgendosi del nulla che c’è dietro di essa.
La responsabile di questa difformità – cioè colei che attribuisce spesso onori, prestigio e fama immeritati – è la sorte: essa, non a caso, viene spesso raffigurata bendata, proprio perché non distribuisce il bene e il male secondo un criterio meritocratico, ma del tutto a capriccio. Fedro ci vuole mettere in guardia proprio da questo: non sempre a una bella apparenza corrisponde altrettanta sostanza!
Questa convinzione affonda le sue radici nella favolistica greca, a cui Fedro non fa mistero di ispirarsi: anche nella raccolta di favole di Esopo compare infatti una favola in cui una volpe, dopo essere entrata nella casa di un attore e aver frugato in mezzo a tutti i suoi costumi, solleva con le zampe una maschera ed esclama: “Una testa magnifica! Ma cervello, niente!”. Secondo Esopo questa favola si adatta particolarmente agli uomini belli di corpo ma poveri di spirito.
Anche altri autori hanno voluto riprendere il motivo dell’ apparenza senza sostanza: possiamo ricordare, per esempio, il poeta Giovenale, vissuto nel I secolo d.C., che condensa questa verità in un detto sentenzioso (fronti nulla fides, cioè nessuna fiducia nell’aspetto esteriore) e il favolista francese Jean de La Fontaine, vissuto nel Seicento, che in una sua favola racconta: “ Un dì (narra la favola) innanzi a un colossale / busto d’un grande eroe la volpe si fermò, / e subito esclamò: / “Testa stupenda e nobile opera di scalpello, / ma vuota di cervello!”/ Di quanti miei signori anch’io direi l’eguale!” (traduzione di Emilio de Marchi).
Analisi del testo
METRO: senario giambico
Personam: abbiamo già avuto modo di anticipare che l’etimologia di questo sostantivo va ricondotta al verbo personare, far risuonare, forse derivato dall’etrusco phersu. Poiché la maschera aiutava a riconoscere la funzione svolta sulla scena dall’attore che la indossava (eroe, schiavo, vecchio mercante, giovane fanciulla…) il vocabolo persona finì con l’indicare l’individuo stesso: di qui il valore che noi attribuiamo a questo termine, rimasto in uso nella nostra lingua.
Da notare la collocazione del vocabolo in posizione enfatica, all’inizio del primo verso: la maschera è infatti la vera protagonista della favola, perché consente di veicolare il messaggio morale.
Forte: l’avverbio forte, per caso, deriva da un sostantivo, fors, fortis, della terza declinazione, che pian piano è caduto in disuso: esso, infatti, si trova solo al nominativo o all’ablativo singolare, in quest’ultimo caso con valore avverbiale.
Vulpes: ricordiamo che i personaggi delle favole hanno valore simbolico: la volpe, per esempio, rappresenta la furbizia (infatti è spesso accompagnata dall’aggettivo callida, che significa astuta, furba). Per questo motivo nella traduzione possiamo scegliere se presentarla con l’articolo determinativo o indeterminativo, anche se essa è citata per la prima volta (e in questo caso la regola imporrebbe di usare l’articolo indeterminativo).
O: è una interiezione, cioè un’esclamazione completamente svincolata da rapporti sintattici con gli altri elementi del testo, che sottolinea lo stupore della volpe di fronte alla scoperta di quanto l’apparenza possa ingannare.
Quanta: l’aggettivo quantus, -a, -um significa quanto grande e sottolinea, pertanto, la grandezza; il quanto in senso numerico è reso con l’indeclinabile quot.
Species: questo sostantivo deriva dal verbo specio, guardare, che non è mai usato da solo: esso, infatti, si trova solo nei composti (per esempio aspicio e conspicio).
Inquit: terza persona singolare del verbo difettivo inquam, usato nel discorso diretto sempre dopo una o più parole.
Cerebrum non habet: nella traduzione si può aggiungere una congiunzione avversativa: in latino l’asindeto esprime la contrapposizione in modo più forte di quanto farebbero un sed o un at.
Hoc: il pronome neutro si può riferire sia alla costatazione della volpe sia all’intera favola.
Illis: dativo di vantaggio. È l’antecedente del pronome relativo quibus; è stato usato al posto del più comune iis, forse perché Fedro aveva in mente qualcuno in particolare a cui riferirsi.
Fortuna: questo sostantivo deve essere considerato una vox media, cioè un vocabolo che non ha connotazione positiva o negativa (al contrario di quanto accade in italiano, dove ha sempre valore positivo). Fortuna vale pertanto, a seconda del contesto, sorte, in senso neutro, oppure buona o cattiva sorte. Altri vocaboli che possono essere considerati vox media sono eventus (buon o cattivo risultato), fama (buona o cattiva fama) ed exitus (bel o cattivo finale).
Merita di essere evidenziato l’enjambement che separa i due complementi oggetti honorem et gloriam dal soggetto Fortuna e dal predicato verbale tribuit: la collocazione all’inizio di verso del termine Fortuna sottolinea l’assoluta casualità con cui alcuni si trovano a essere favoriti rispetto ad altri.
Sensum communem: il poeta Orazio, nelle Satire (I, 3, 66), parlando di uno sciocco, dice che communi sensu plane caret, cioè che è completamente privo di senso comune, quel poco di intelligenza che è generalmente dato agli uomini. Anche in questo caso è possibile aggiungere nella traduzione una congiunzione avversativa, per mettere in risalto l’antitesi tra le due azioni della fortuna.
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