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grammatica e letteratura italiana | latina | greca

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Memorie di guerra

in PROSA \ APPROFONDIMENTI \ LETTERATURA ITALIANA

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Ogni vita umana, in quanto unica e irripetibile, meriterebbe un libro. Alcune persone decidono di raccontare il proprio vissuto, ed è così che nascono i romanzi autobiografici, che narrano, in prima persona, delle vicende o l’intera vita del protagonista.

Ho tra le mani un libretto di una trentina di pagine, che s’intitola Quattro anni in Siberia. Racconta uno squarcio di vita di un giovane alpino, poco più che ventenne, che l’8 agosto 1942 parte per il fronte russo e rientra in Italia, dopo anni terribili trascorsi in Siberia, il 28 marzo 1946.

Il 15 dicembre 1942 la divisione di alpini di cui fa parte, la Julia, viene inviata a sostenere la prima vera battaglia al fronte. È una cosa che spacca il cuore lasciare baracche e alloggiamenti nel gelo implacabile dell’inverno russo e buttarsi in una disperata avventura nel mare di ghiaccio, dove sono in agguato la morte e il mistero. La battaglia scoppia, furiosa. In breve c’è una lugubre distesa di morti sulle quote contese: carname glorioso, su cui non scenderà mai una lacrima d’amore e di pietà. Non c’è tempo per riprendersi, non c’è modo di riposare: nei momenti di sosta, se non hai le mani paralizzate dal gelo, ti scavi nel ghiaccio una buca e lì ti accucci al riparo dal vento che rade la steppa fischiando.

La battaglia è persa. Arriva, dopo diciassette giorni di martirio, l’ordine di ritirata. La colonna si mette in marcia. Bisogna camminare, anche quando senti le gambe incapaci di rispondere agli stimoli della volontà, anche quando ti senti morire di fame e di disperazione, anche quando ti accorgi di essere sull’orlo della pazzia. E cammini ancora, stringendo i denti, mordendoti a sangue le labbra per resistere al fascino della neve che, morbida e bianca, ti attira a sé irresistibilmente, ti invita maliziosa ad abbandonarti su di lei a dormire… finalmente, e a morire. Cammini ancora perché, quando stai per affondare nella voragine dello sconforto, ti esplode nella mente, a darti una scossa violenta, l’immagine della tua mamma che aspetta, alla quale devi portare il meraviglioso dono di tornare vivo tra le sue braccia: e rivedi la tua casa inondata di sole: devi arrivarci.

Sono le 8 del mattino del 21 gennaio quando, all’orizzonte, il drappello di alpini in marcia vede concretizzarsi la sua più grande paura: una colonna di carri armati russi. Dopo aver informato il comandante, il giovane alpino appende uno straccio bianco alla canna del suo 91 e muove incontro al nemico. Gli alpini si arrendono. La Julia invitta ha cessato di esistere.

Cominciano così i lunghi mesi di prigionia, quando trovare delle patate gelate dure come sassi significa accingersi a mangiare un piatto prelibato e poter guidare un camion (sotto la minaccia di una pistola) per recuperare dai villaggi il materiale bellico abbandonato diventa un’occupazione invidiabile, perché permette di non pensare a ciò che ti circonda e di ricevere una razione quotidiana di pane nero e pesce salato…

Il giovane alpino non viene meno, in questo triste scenario, ai valori che la sua famiglia gli ha insegnato. Un giorno vede, accucciato sulla soglia di un’isba, un tenente della Julia: un uomo che sembra scarnificato, un spettro. “Ma lei” chiede al tenente “perché sta qui fuori con questo freddo e non entra nell’isba?” “Ero dentro – balbetta – ma mi hanno imposto di uscire perché sto morendo: così nessuno dovrà scomodarsi a trascinare fuori il mio cadavere”. Il giovane alpino è preso da un’ira sorda, feroce: entra nell’isba portando in braccio il tenente, che peserà trenta chili. Si fa largo tra le persone, urla, lo depone nel posto che gli sembra il migliore e grida: “È mio amico. Da questo momento, chi lo tocca avrà a che fare con me.” L’indomani il tenente muore. Nell’isba e non in strada, come un cane rognoso.

I mesi passano. Il freddo, la fame, il tifo riducono quel ragazzone a uno scheletro di 37 chili. Lo spirito di sopravvivenza lo induce a raccogliere le ultime forze e a proporsi come aiuto nelle cucine del sanatorio in cui è stato mandato. Rubare la fondaglia delle marmitte e il bruciaticcio che resta sul fondo lo aiuta a stare in vita, fino alla primavera del 1944, quando viene spostato, con i compagni, in un altro campo in Siberia, per lavorare in una miniera.

Il comandante del campo li accoglie con una frase molto eloquente: “Qui sarà la vostra fine: chi entra non esce più”. E allora tanto vale tentare la fuga. Una notte, quando il buio è fitto e impenetrabile, striscio dalle latrine verso i reticolati… il cuore sembra scoppiarmi nel petto, ma non ho un attimo di esitazione. Scivolo come un serpente sotto l’ultimo filo di reticolato, sollevandolo con ogni delicatezza di quel tanto che basta e guadagnando pochi centimetri per volta…. Ogni più piccolo rumore mi fa gelare il sangue nelle vene… Eccomi fuori. Striscio ancora per centinaia di metri, adagio, quasi accarezzando la terra con il mio corpo. Ce l’ho fatta. Non ho dubbi sulla direzione da scegliere: la stazione. Poi si vedrà.

Il giovane alpino sale su un treno. Appena scende viene subito catturato dai russi, che lo portano in un vicino campo di concentramento, dove resta, tra privazioni e patimenti, fino al 25 dicembre 1945, un giorno memorabile, che nessuno dei 1200 italiani del campo potrà mai dimenticare. È arrivato l’ordine di rimpatrio per tutti gli italiani. La partenza avviene alle ore 12.30 del 25 dicembre. Il treno macina chilometri e chilometri di steppa, neve e ghiaccio, la temperatura è di 45 – 50 gradi sottozero, nei vagoni niente di niente, senza riscaldamento, ci si scalda a fiato.

Il viaggio di ritorno dura tre mesi. A Tarvisio città scendiamo tutti a terra, ci inginocchiamo per ringraziare il Padre Nostro che ci ha fatti tornare in Patria da quell’inferno di ghiaccio, desolazione e morte.

Arrivati a Udine veniamo circondati da una folla indescrivibile… chi di gioia per aver ritrovato il loro bravo alpino, chi di rassegnazione nel non vedere il proprio figlio, sposo, padre o fidanzato tra i rimpatriati; questi ultimi girano come ossessi tra noi elemosinando qualche briciola di notizia, anche se vaga, che possa ridare loro anche un piccolo barlume di speranza di poter rivedere un giorno il loro caro.

Dopo oltre 43 mesi di lontananza, il Calvario è finito, la vita ricomincia. Forse è un’era nuova, di pace fraterna tra i popoli.

Chiudo il libro. L’eco del suono di quella voce e di queste parole, che ho ascoltato tante volte, mi scende dritto al cuore. Quel ragazzo è diventato un uomo, si è sposato con Giulia, una donna forte e sempre sorridente, che ha amato di un lungo e vero amore. Ma quello che ha vissuto è rimasto inciso nel suo sguardo, nella profondità e nella tristezza dei suoi occhi. La sua testimonianza – così dura, così vera – DEVE insegnarci a ripudiare la guerra, senza se e senza ma, senza indugi, senza tentennamenti.

Altrimenti tutto ciò sarà successo invano.

Grazie del Suo insegnamento, Firmino Micheloni, Sergente dell’8º Reggimento Alpini della Divisone Julia. Ferito. Prigioniero. Croce al merito di guerra. Proposto per la medaglia d’argento al valore. Cavaliere Ufficiale al merito della Repubblica italiana. Commendatore.

Grazie, zio Firmino.
Mandi (il bellissimo saluto friulano, che significa ti accompagni il Signore).

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