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grammatica e letteratura italiana | latina | greca

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Fr. 335 V (91 D)

in TESTI \ ALCEO \ POETI MELICI MONODICI E CORALI \ LETTERATURA GRECA

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In questo frammento Alceo invita un amico a bere per dimenticare le sofferenze della vita…

1 Οὐ χρῆ κάκοισι θῦμον ἐπιτρέπην·
   προκόψομεν γὰρ οὖδεν ἀσάμενοι,
3 ὦ Βύκχι, φαρμάκων δ᾽ ἄριστον
   οἶνον ἐνεικαμένοις μεθύσθην.

Non bisogna abbandonare l’animo ai mali:
infatti tormentandoci non guadagneremo niente,
o Bucchide, la miglior medicina
(è) ubriacarsi, dopo esserci fatti portare del vino.

(traduzione di A. Micheloni)

Alceo si rivolge a Bucchide (nome che può essere tradotto anche con Bicchide, Bucchis o Bicchi), un uomo che cita anche in un altro frammento. Non sappiamo con esattezza chi egli sia: alcuni ipotizzano che si possa trattare del ragazzo di cui Alceo è innamorato, altri di un amico che partecipa con lui a un banchetto. Il poeta lo apostrofa perché intende fornirgli un prezioso consiglio: per dimenticare i mali e le preoccupazioni che la vita ci riserva (che nel caso di Alceo potrebbero fare riferimento all’esperienza dell’esilio) bisogna farsi una bella bevuta tra amici in un simposio, il banchetto greco durante il quale un ristretto gruppo di uomini di rango elevato si riuniva per cantare, giocare, raccontarsi vicende personali, confidarsi amori e discutere di politica.

Non sappiamo di quale tipo di componimento facessero parte questi versi, strutturati secondo lo stile paratattico tipico dell’autore: secondo alcuni studiosi essi possono essere attribuiti a un carme conviviale (uno dei cosiddetti σκόλια, eseguiti con l’accompagnamento di una cetra, improvvisati o preparati in precedenza, frutto di ispirazione propria o rielaborazione di versi altrui); secondo altri, invece, a uno dei numerosi στασιωτικά (poesie di lotta politica) scritti da Alceo, di cui potrebbero costituire la chiusa.

Se non sappiamo ricondurre con certezza questi versi a una tipologia testuale ben definita, sappiamo invece con sicurezza chi ne è il protagonista: il vino. È lo stesso Ateneo, un erudito del II – III secolo d.C. che ci ha tramandato i versi che costituiscono questo frammento, a scrivere che “questo poeta lo troviamo a bere: d’inverno, d’estate, di primavera, nelle sventure e nelle gioie”. Alceo è infatti fermamente convinto del fatto che il dono che il dio Dioniso ha consegnato agli uomini debba essere celebrato ed esaltato, perché consola e libera dagli affanni (non è certamente un caso che il nome latino del dio Dioniso sia Liber): il vino rende l’animo più leggero; passarsi la coppa che lo contiene crea, tra i partecipanti al simposio, una sorta di legame empatico, che permette di sentirsi più sereni e fiduciosi anche nei confronti del proprio destino. Il bere non viene dunque inteso come un puro momento di abbandono, ma come un modo per scacciare la malinconia e l’angoscia esistenziale, che lasceranno così il posto a un breve – ma intenso – momento di spensieratezza da condividere con gli amici. Questo stesso concetto sarà ripreso, nel I secolo a. C., anche dal poeta latino Orazio, che in uno dei suoi carmina (I 7,31) ricorda l’invito che Teucro, eroe greco che combatté a Troia, rivolge ai suoi compagni prima della partenza alla ricerca di una nuova terra: nunc vino pellite curas (ora allontanate le preoccupazioni con il vino).

Secondo Alceo una buona coppa di vino è dunque φαρμάκων δ᾽ ἄριστον, la migliore delle medicine che l’uomo abbia a disposizione per alleviare il dolore e gli affanni. Questa definizione risulta particolarmente interessante: non va infatti dimenticato che in greco la parola φάρμακον indica tanto un rimedio quanto un veleno. Proprio per questo motivo durante il simposio il vino veniva miscelato (di solito cinque parti di acqua e due di vino) in modo che non determinasse troppo presto il raggiungimento della condizione di ebbrezza, espediente che permetteva ai partecipanti al banchetto di berne in grandi quantità, evitandone il più a lungo possibile gli effetti collaterali.

Il motivo della necessità di saper sopportare al meglio i mali e le sofferenze ritorna più volte nella lirica greca, ottenendo risposte diverse: se Alceo trova la soluzione nel vino, un altro grande poeta, Archiloco, come abbiamo avuto modo di vedere in una precedente lezione sul suo frammento 67, invita il proprio animo a tenere duro, sopportando con coraggio virile le prove che un destino avverso si diverte a presentare agli uomini sul loro cammino…

Analisi del testo

METRO: strofa alcaica

Θῦμον: corrisponde all’attico θυμόν, poiché si è verificato il fenomeno della baritonesi; questo termine indica, come in Omero, sia l’energia che spinge ad agire, sia il luogo in cui nascono i sentimenti, le emozioni e le passioni: per questo esso viene solitamente identificato con il cuore o, più genericamente, come in questo caso, con l’animo.

κάκοισι: corrisponde all’attico κακοῖς, poiché presenta la desinenza del dativo plurale –  οισι tipica dell’eolico.

ἐπιτρέπην: corrisponde all’infinito attico ἐπιτρέπειν.

προκόψομεν οὖδεν: προκόψομεν è la prima persona plurale dell’indicativo futuro del verbo προκόπτω, intransitivo, qui costruito con un accusativo di relazione, οὖδεν, che equivale – per il fenomeno della baritonesi – all’attico οὐδέν. La traduzione letterale è, quindi, non progrediremo in niente.

ἀσάμενοι: participio presente dal verbo ἀσάω; corrisponde all’attico ἀσώμενοι. Questo verbo può essere usato sia in senso proprio (soprattutto in ambito medico, in cui vale essere tormentato dalla nausea) sia in senso traslato (in cui assume il valore di essere disgustato, essere preoccupato).

ἄριστον: è sottintesa la terza persona singolare del verbo essere; si tratta di un superlativo che appartiene all’area semantica dell’aggettivo ἀγαθός. È seguito dal genitivo partitivo φαρμάκων.

ἐνεικαμένοις μεθύσθην: il participio medio passivo ἐνεικαμένοις (dal verbo ἐν – φέρω) corrisponde all’attico ἐνεγκαμένους, poiché si riferisce a un soggetto sottinteso – ma facilmente deducibile dal contesto – noi, in caso accusativo; μεθύσθην, che corrisponde all’attico μεθυσθῆναι, è l’infinito aoristo passivo da μεθύσκω. Insieme formano una proposizione infinitiva – con valore soggettivo – retta da φαρμάκων δ᾽ ἄριστον, la cui traduzione letterale è: la migliore delle medicine è che noi, serviti di vino, ci ubriachiamo, ottenuta attribuendo al verbo ἐν – φέρω una sfumatura causativa (farsi portare, farsi servire).

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