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grammatica e letteratura italiana | latina | greca

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Fabulae I, 6

in TESTI \ FEDRO \ L’ETÀ GIULIO CLAUDIA \ LETTERATURA LATINA

Le rane e il sole (I, 6)

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In questa favola di Fedro le rane si preoccupano per le nozze del Sole.

Vicini furis celebres vidit nuptias
Aesopus et continuo narrare incipit:
Uxorem quondam Sol cum vellet ducere
clamorem ranae sustulēre ad sidera.
Convicio permotus quaerit Iuppiter
causam querelae. Quaedam tum stagni incola:
“Nunc – inquit – omnes unus exurit lacus
cogitque miseras arida sede emori.
Quidnam futurum est, si crearit liberos?”

Esopo vide le sontuose nozze di un ladro, (suo) vicino di casa,
e subito cominciò a raccontare:
Una volta le rane, poiché il Sole voleva prendere moglie,
alzarono grida verso il cielo.
Giove, spinto dallo schiamazzo, chiede
il motivo della lamentela. Allora un’abitante dello stagno:
“Ora – dice – da solo, secca tutti gli stagni
e ci costringe a morire, misere, all’asciutto.
Che cosa mai succederà, se farà dei figli?”.

(traduzione di A. Micheloni)

Questi versi propongono, come succede sempre nelle favole di Fedro, un episodio di vita quotidiana, dal quale è possibile trarre un insegnamento, che, a differenza di quanto succede solitamente, non viene consegnato alla proverbiale “morale della favola”, ma deve essere dedotto dal contesto in cui la favola è inserita.

Essa viene infatti raccontata da Esopo (il celebre favolista greco vissuto nel VI secolo a. C., di cui Fedro si professa discepolo) in occasione delle nozze di un suo vicino di casa, ladro di professione.
Di fronte a questo matrimonio Esopo si sente in dovere di narrare una delle sue favole, che ha come protagonisti degli animali – in questo caso delle rane -, il Sole e una divinità, Giove.

Le povere rane appaiono giustamente preoccupate in occasione delle nozze del Sole: per questo motivo cominciano a innalzare grida al cielo, cioè a invocare gli dei. Un solo Sole secca tutti gli stagni (e questo concetto è ben sottolineato dall’affiancamento dei due aggettivi unus, uno solo, e omnes, tutti quanti): che cosa succederà quando arriveranno altri piccoli soli? E dunque, in senso traslato: un solo ladro prosciuga le tasche delle sue vittime: che cosa succederà quando altri piccoli ladri impareranno il mestiere dal loro papà?

A rispondere alle loro invocazioni è addirittura Giove, il signore degli dei. Il suo nome latino, Iuppiter, deriva dall’indoeuropeo, definizione con cui si identifica una lingua parlata in una zona compresa tra l’India e l’Europa – di qui il nome – in età storica, che, essendo priva di attestazioni scritte, può soltanto essere ricostruita confrontando le lingue da lei derivate (tra cui ci sono il greco, il latino, l’antico indiano…). Dall’indoeuropeo *Diéus1, che significava cielo, luce, si originò, dunque, l’espressione *Diéus patér, padre del cielo, che si trasformò poi in Iuppiter (vocabolo attestato anche in alcune forme secondarie – come Dièspiter e Diòvis – che ne testimoniano la lenta trasformazione). Giove era pertanto ritenuto il padre di tutte le creature, celesti e terrestri, e connesso al cielo luminoso: per questo spettava a lui amministrare tutti i fenomeni atmosferici (non a caso è spesso rappresentato con il fulmine). Con il tempo venne sempre più identificato con il corrispondente dio greco, Zeus, con cui, non a caso, spartisce la radice del nome: abituato a dare ordini e a essere rispettato da tutti, interveniva spesso e volentieri nelle vicende umane (anche se, in questo caso, gli uomini sono nascosti sotto le sembianze di rane!).

La morale che Fedro consegna a questa favola è chiaramente deducibile dalla spiegazione che la rana fornisce a Giove a proposito delle loro lamentele: ci sono già parecchi ladri al mondo… meglio che non se ne aggiungano degli altri!

Questa morale diventa ancora più significativa se si tiene conto del fatto che le fonti dell’epoca fanno notare che nel momento della stesura della favola (il 23 d.C.) si stavano per celebrare le nozze di Seiano, il dispotico e prepotente prefetto del pretorio dell’imperatore Tiberio. Il timore era che dal suo matrimonio con Livia, discendente di Augusto e nuora di Tiberio, come ci dice lo storico Tacito, nascessero dei figli altrettanto dispotici: non potendo esprimere questa preoccupazione in modo palese, Fedro avrebbe fatto ricorso a questa favola per far emergere comunque il suo pensiero in proposito. Del resto il nome completo del prefetto era Aelius Seianus e in greco sole si dice proprio Hèlios: a buon intenditor…

Il povero Fedro pagò cara questa non tanto velata critica: fu giudicato e condannato in un processo in cui Seiano, come ci dice lo stesso Fedro nel Prologo del terzo libro delle Fabulae, era accusatore, testimone e giudice e che lo ridusse in povertà. Ma anche a Seiano non andò molto bene: le nozze con Livia, infatti, sfumarono di lì a poco…

Analisi del testo

METRO: senario giambico

Furis: il sostantivo fur, furis indica, in latino, colui che ruba di nascosto, introducendosi nottetempo nelle abitazioni altrui; chi rubava sotto gli occhi di tutti, per esempio per strada, era il latro, latronis.

Celebres: l’aggettivo celeber in latino significa affollato, pieno di persone: nella traduzione del verso esso può pertanto essere reso con sontuose, perché allude al fatto che a queste nozze erano state invitate molte persone, cosa che lascia pensare, appunto, a una celebrazione particolarmente fastosa. Niente a che fare, quindi, con il nostro aggettivo celebre, che corrisponde, in latino, a clarus.

Continuo: questo avverbio, derivato dall’aggettivo continuus, vuol dire subito, senza perdere tempo. Da continuus deriva anche l’avverbio continue, che invece sottolinea l’idea della mancanza di interruzione tra due azioni.

Incipit: è un presente storico, scelto perché in grado di dare maggior vivacità alla narrazione, soprattutto dopo il perfetto vidit.

Uxorem… ducere: uxorem ducere è un’espressione idiomatica, cioè un’espressione tipica del latino, che significa prendere moglie e che si usa, pertanto, solo in riferimento a un uomo; per indicare che una donna si sposa si usa, invece, il verbo nubo, accompagnato dal caso dativo.

Quondam: è un avverbio di tempo tipico delle favole: corrisponde al nostro “c’era una volta”.

Cum… vellet: costruzione del cum narrativo; in questo caso le si può attribuire un valore causale. Vi si trova il congiuntivo imperfetto (del verbo anomalo volo) perché indica una contemporaneità con la reggente, in cui è presente un tempo storico.

Clamorem… ad sidera: è una locuzione poetica che viene usata per indicare l’atto di supplicare gli dei, alzando grida verso il cielo (in questo caso indicato con il termine sidera, stelle). Si trova anche nell’Eneide di Virgilio, nel X libro, ai versi 262 – 263: clamorem ad sidera tollunt Dardanidae e muris.

Sustulēre: è la forma sincopata per sustulerunt, perfetto del verbo tollo.

Convicio: complemento di causa efficiente, retto dal participio permotus. Il sostantivo convicium, composto dalla preposizione cum e dal sostantivo vox, indica il rumore che viene prodotto da tante voci che si levano insieme (di qui la sua etimologia): in questo caso allude al fastidioso gracidare delle rane.

Quaerit: terza persona singolare dal verbo quaero, con valore di presente storico. Quaero è il più importante verbo latino, con peto, per esprimere il concetto di chiedere: quaero, che si costruisce con e o ex con il caso ablativo della persona a cui si chiede, significa chiedere per sapere, mentre peto, che si costruisce con a o ab e il caso ablativo della persona a cui si chiede, significa chiedere per ottenere qualcosa.

Querela: questo sostantivo (derivato dal verbo queror, che significa lamentarsi) indica la lamentela che si fa dopo esser stati delusi, offesi o ingannati. Di qui il valore assunto dal termine – rimasto identico anche nella nostra lingua – in ambito legale.

Stagni incola: alla lettera l’abitante dello stagno, una perifrasi per indicare la rana. La perifrasi, figura retorica molto usata da Fedro, ha il duplice scopo di evitare una ripetizione e di caratterizzare i personaggi, mettendone in luce una qualità, un difetto, un’abitudine…

Inquit: questo verbo – indicativo presente o perfetto di inquam – si trova sempre col discorso diretto e si colloca dopo una o più parole del discorso stesso.

Exurit: il verbo uro, bruciare, entrando in composizione con la preposizione ex assume il valore di bruciare fino in fondo e quindi, in senso traslato, di seccare completamente.

Miseras: riferito a un nos sottinteso, assume il valore di complemento predicativo dell’oggetto.

Emori: l’aggiunta di una e al verbo morior gli attribuisce un valore decisamente più forte: morire di stenti, lentamente e inesorabilmente.

Arida sede: può essere inteso sia come ablativo di causa che come complemento di luogo.

Futurum est: alla lettera: è destinato ad accadere. È una forma di futuro ottenuta con una perifrasi, unendo il participio futuro del verbo fio e una voce del verbo sum. Questa perifrasi è stata scelta sia per motivi metrici sia perché più forte del semplice fiet, perché il participio futuro consente di sottolineare l’inesorabilità di un triste futuro che la povera rana immagina molto vicino…

Crearit: forma sincopata per creaverit; è un futuro anteriore, qui usato in ottemperanza alla legge del doppio futuro, che vuole, in caso di due proposizioni al futuro, il futuro semplice nella principale e quello anteriore nella subordinata, poiché questa azione è sempre precedente a quella espressa dall’altro verbo.

Liberos: i figli, che costituiscono la parte libera della famiglia, in contrapposizione ai servi. È un pluralia tantum della seconda declinazione.

Note

1. L’asterisco che precede la parola è un segno convenzionale per evidenziare che essa non è attestata ma solo ricostruita dagli studiosi di linguistica comparando parole tratte da lingue di origine indoeuropea.

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