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Grammatica Italiana
Benvenuti
Lo studio dei meccanismi della lingua e della comunicazione è fondamentale per chiunque: la conoscenza delle molteplici risorse della lingua e del loro utilizzo nelle diverse situazioni comunicative non è per forza limitata agli anni della scuola!
In questa sezione, dopo le spiegazioni estese, viene proposto un pratico repertorio di schede, GRAMMATICANDO, per un apprendimento / ripasso veloce delle principali regole della nostra grammatica.

Sottotitolo (eventuale)
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come segue
Titolo pagine “interne” con reali contenuti
in PROSA \ APPROFONDIMENTI \ LETTERATURA ITALIANA
Il paradosso nella prosa
in PROSA \ APPROFONDIMENTI \ LETTERATURA ITALIANA
Disponibile anche in formato AUDIO
Sottotitolo (eventuale)
EVENTUALE INTRODUZIONE TESTUALE
Lo scopo di questa sezione è arricchire la conoscenza dei proverbi e dei modi di dire, di chiarirne il significato e di rivelarne l’origine: in un’epoca in cui per alcuni è più importante dire la cosa giusta piuttosto che dire ciò che si crede e che si pensa, risulta davvero fondamentale riappropriarsi del gusto di pronunciare una parola o una frase perché la si conosce, la si sceglie e la sa si utilizzare…

SEZIONE + RIGA SENZA SFONDO
Le abbreviazioni devono sempre essere seguite da un punto, che indica la caduta della seconda parte del vocabolo.
Questa regola non vale, però, per le forme che riguardano misure, capacità, pesi,… perché sono considerate termini completi.
Avremo così dott. e km, perché il primo è considerato un’abbreviazione, il secondo, invece, un termine completo.

SEZIONE + RIGA CON SFONDO rgba (230,225,210,0.25)
La virgola non si trova MAI tra soggetto e verbo: questo può capitare solo ed esclusivamente quando dopo il soggetto comincia una proposizione incidentale, che si apre e si chiude con una virgola.
Avremo così, correttamente, Riccardo, quando sorride, assomiglia a suo padre ma MAI *Riccardo, assomiglia a suo padre.

La metafora, come indica il suo nome (che deriva dal verbo greco μεταφέρω – metaphéro – “io trasporto”, composto da metà = “oltre, al di là” e phéro = “porto”), consiste nel trasferimento di significato da una parola all’altra, cioè nella sostituzione di una parola con una che abbia con la prima un rapporto di somiglianza e che crea, con lei, immagini dalla forte carica espressiva.
Così la descrive, nella sua più celebre opera, lo scrittore Quintiliano, vissuto nel I secolo d. C.:
Per dirla in sintesi, la metafora è una similitudine abbreviata, e differisce da questa in quanto la similitudine è paragonata all’oggetto che vogliamo descrivere, mentre la metafora viene collocata al posto della parola stessa. La similitudine si ha quando dico che un uomo si è comportato come un leone, la metafora quando dico, di un uomo, che è un leone.
(Quintiliano, Institutio oratoria, VIII, 6, 8)

SEZIONE + RIGHE, anche a 3 COLONNE
Si scrivono con la lettera maiuscola i titoli onorifici, accademici e nobiliari, i nomi di popolo, le lingue e i termini che indicano appartenenza politica o religiosa. Quando però essi sono usati in compagnia di un altro nome o di un aggettivo si preferisce la minuscola.
Avremo così:
il Ministro
il Professore
il Conte
i Francesi
il Tedesco
i Cattolici
e
e
e
e
e
e
il ministro Rossi
il professor Bianchi
il conte Cavour
la cucina francese
la lingua tedesca
la religione cattolica
il Ministro e il ministro Rossi
il Professore e il professor Bianchi
il Conte e il conte Cavour
i Francesi e la cucina francese
il Tedesco e la lingua tedesca
i Cattolici e la religione cattolica
E Vogliono invece sempre la maiuscola, oltre ai nomi propri, le feste religiose, i titoli di libri, le opere d’arte, i periodi storici, i secoli, i nomi di enti, associazioni e movimenti culturali.
E Alcuni sostantivi hanno la maiuscola o la minuscola a seconda del loro utilizzo: se sono usati come nomi propri devono avere la maiuscola, se come nomi comuni, la minuscola.
Avremo così: la Terra gira intorno al Sole e Il Sole ha già asciugato la terra appena bagnata.
E Si usa sempre la minuscola per i nomi dei giorni, dei mesi e delle stagioni.

L’accento e i monosillabi: chi lo vuole?
Alcuni monosillabi sono accentati per essere più facilmente distinguibili dai loro omografi, cioè da vocaboli che hanno la loro stessa grafia ma un significato diverso.
Ecco i più usati:
MONOSILLABI ACCENTATI
è → verbo essere
sì → avverbio di affermazione
dà → 3ª persona dell’indicativo presente del verbo dare
lì → avverbio di luogo
là → avverbio di luogo
tè → bevanda
né → congiunzione negativa
sé → pronome
MONOSILLABI NON ACCENTATI
e → congiunzione
si → pronome o particella pronominale
da → preposizione
li → pronome
la → articolo o pronome personale femminile
te → pronome
ne → pronome o avverbio
e → congiunzione
è → verbo essere monosillabo accentato
e → congiunzione monosillabo non accentato
sì → avverbio di affermazione monosillabo accentato
si → pronome o particella pronominale monosillabo non accentato
dà → 3ª persona dell’indicativo presente del verbo dare monosillabo accentato
da → preposizione monosillabo non accentato
lì → avverbio di luogo monosillabo accentato
li → pronome monosillabo non accentato
là → avverbio di luogo monosillabo accentato
la → articolo o pronome personale femminile monosillabo non accentato
tè → bevanda monosillabo accentato
te → pronome monosillabo non accentato
né → congiunzione negativa monosillabo accentato
ne → pronome o avverbio monosillabo non accentato
sé → pronome monosillabo accentato
se → congiunzione monosillabo non accentato
Quando se è seguito da stesso o medesimo non deve essere accentato, perché in questo caso non esiste più la possibilità di fare confusione con la congiunzione.
Gli avverbi di luogo qui e qua, come insegna una nota filastrocca (su qui e qua l’accento non va), non sono mai accentati, perché non esistono omografi con cui sia possibili confonderli!

Titoletto con <P> e
LINEA SEPARATORE \ CAFFÈ LATTE SCURO e0d8c8 1px
La doppia vita di PIÙ DI
Quando un rapporto di maggioranza o di minoranza è seguito dall’espressione più di, bisogna fare attenzione a non confondersi: il complemento di paragone dipende sempre da un comparativo, mai da un superlativo! In questo caso, infatti, si tratta di un complemento partitivo.
Così in
Sono più preparato dei miei compagni troviamo un complemento di paragone, perché prima c’è un comparativo
ma in
Sono il più preparato dei miei compagni troviamo un complemento partitivo, perché prima c’è un superlativo relativo.
♦ In caso di dubbio basta provare a sostituire la preposizione di con la preposizione tra: se la sostituzione è possibile, il complemento è partitivo!
PIÙ DI oppure PIÙ CHE?
Quando si esprime un rapporto di maggioranza o di minoranza, il secondo termine è solitamente introdotto da di (Paola è più simpatica di Chiara).
Si preferisce usare che quando la comparazione avviene tra:
– due nomi o due pronomi preceduti da preposizione (È più famoso in Italia che all’estero);
– due verbi, due avverbi o due aggettivi (“Guardare la tv è più utile che leggere!” “La prossima
volta rispondi più lentamente che precipitosamente: sono più arrabbiato che stupito per la tua
superficialità.”).

Un pronome relativo posto all’inizio di una frase o di un periodo (quindi dopo un segno di interpunzione forte – punto e virgola, due punti o punto fermo -) non introduce una proposizione subordinata relativa ma marca una coordinazione con la frase precedente: questo utilizzo del pronome viene identificato con la definizione di nesso (dal latino nexus, cioè legame, collegamento) relativo.
Questo costrutto si rende in italiano con una congiunzione coordinante copulativa (et, atque), avversativa (sed, autem) o conclusiva (igitur, enim), a seconda del contesto, accompagnata da un pronome dimostrativo o determinativo nello stesso genere, numero e caso del pronome relativo.
Le grammatiche definiscono spesso le proposizioni che cominciano con un nesso relativo “relative apparenti”: esse, infatti, anche se il pronome relativo mantiene il suo valore di relazione con la proposizione precedente, non introducono una subordinata.
Vediamo insieme qualche esempio:
ESEMPIO n.1
Athenienses miserunt iis legatos, ut pacem peterent. Qui, cum in insulam pervenissent, populo persuaserunt.
Trasformiamo la frase secondo le indicazioni, poiché abbiamo riconosciuto la presenza di un nesso relativo, e poi procediamo con la traduzione:
Athenienses miserunt iis legatos, ut pacem peterent. Qui (= et ii), cum in insulam pervenissent, populo persuaserunt.
Gli Ateniesi inviarono loro degli ambasciatori, per chiedere la pace. Ed essi, dopo essere arrivati nell’isola, convinsero il popolo.
ESEMPIO n. 2
Athenienses miserunt iis legatos, ut pacem peterent. Qui, cum in insulam pervenissent, populo non persuaserunt.
Trasformiamo la frase secondo le indicazioni, poiché abbiamo riconosciuto la presenza di un nesso relativo, e poi procediamo con la traduzione:
Athenienses miserunt iis legatos, ut pacem peterent. Qui (= at ii), cum in insulam pervenissent, populo non persuaserunt.
Gli Ateniesi inviarono loro degli ambasciatori, per chiedere la pace. Ma essi, dopo essere arrivati nell’isola, non convinsero il popolo.

LA GENESI POLITICO – RELIGIOSA
Dante Alighieri, florentinus et exul immeritus – fiorentino ed esule senza colpa – dal 1302 si ritrova a vivere, profondamente deluso dalla vita politica, in un mondo corrotto e dimentico delle più importanti virtù, cosa che dimostra che l’ordine provvidenziale voluto da Dio è ormai sconvolto.
Il Paradiso uscì, postumo, nel 1321, a cura dei figli del poeta: l’enorme sforzo compositivo che la Commedia costò al suo autore è testimoniato dallo stesso poeta nel XXV canto del Paradiso, in cui, parlando della sua opera, dice “poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m’ha fatto per molti anni macro” (versi 1 – 3).
IL GENERE LETTERARIO
La Divina Commedia appartiene al genere letterario delle visioni, molto diffuso sia nella letteratura classica che in quella medioevale e che ebbe un notevole successo anche nelle arti figurative.
I precedenti più illustri dell’opera dantesca furono Il libro delle tre scritture di Bonvesin de la Riva (1274) e il De Jerusalem celesti e il De Babilonia civitate infernali di Fra Giacomino da Verona, caratterizzati da contenuti e scritture molto semplici: in entrambe le opere, manca, per esempio, un sostrato teologico e la rappresentazione delle pene infernali e delle gioie del Paradiso è legata a codici di comunicazione estremamente elementari (con i diavoli che arrostiscono i dannati sullo spiedo o i beati che mangiano cibi gustosissimi in luoghi incantevoli).
Alcuni studiosi, tra cui Maria Corti, hanno pensato che Dante possa aver tratto ispirazione anche da Il libro della scala, un testo arabo dell’VIII secolo, tradotto prima in castigliano e poi in latino, in cui si racconta un viaggio nell’aldilà di Maometto, accompagnato dall’arcangelo Gabriele. Tale accostamento sembra legittimato dal fatto che la ripartizione dei peccati nell’oltretomba presentata da questo testo è molto simile a quella dantesca.
Sono decisamente evidenti i rimandi e le influenze anche di altri generi letterari, numerosi e variegati:
• la Bibbia
• il libro dell’Apocalisse
• numerosi testi classici, sia di poeti, come Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano, Stazio… (Dante, per esempio, si ispira all’XI canto dell’Odissea e all’intero VI libro dell’Eneide per raccontare il suo viaggio nell’oltretomba) sia di prosatori come Cicerone, Sallustio, Seneca, Valerio Massimo…
• la tragedia e la commedia classiche (quest’ultima, per esempio, fonte di ispirazione nel tratteggio delle figure dei diavoli)
• il poema allegorico (per esempio il Roman de la Rose, una vera e propria enciclopedia che tratta il tema dell’amore cortese)
• la letteratura didattica ed enciclopedica (per esempio il Tesoretto del suo maestro, Brunetto Latini)
• i romanzi bretoni (in cui il viaggio è inteso come un susseguirsi di prove da superare per raggiungere meritatamente la meta desiderata)
• alcune novelle trecentesche…
NOTE E DIDASCALIE CON APICE
ESEMPIO NUMERO APICE per le note, didascalie: paradosso¹
A chiusura di citazione testuale = testo ridimensionato con style=”font-size: 0.75em; text-align: right;
Da Carlo Manzoni, Il signor Veneranda, Rizzoli, Milano, 1949
ESEMPIO da IL PARADOSSO NELLA PROSA
“Io? Io no… perché dovrei fischiare?”, chiese il signore affacciato al primo piano.
“Perché abita in questa casa”, disse il signor Veneranda, “l’ha detto quello del terzo piano che quelli che abitano in questa casa fischiano! Be’, ad ogni modo non mi interessa, se vuole può anche fischiare”.
Il signor Veneranda salutò con un cenno del capo e si avviò per la sua strada brontolando che quello doveva certamente essere una specie di manicomio.
Da Carlo Manzoni, Il signor Veneranda, Rizzoli, Milano, 1949

Il 2023 non si è certamente chiuso nel migliore dei modi e purtroppo anche il 2024 si è aperto con molteplici scenari di guerra. Tra coloro che patiscono maggiormente le conseguenze di questo male che la Storia non riesce a eliminare ci sono certamente i bambini, vittime innocenti e indifese della stupidità umana.
I poeti non possono certamente restare indifferenti di fronte agli sguardi persi e alle sofferenze di chi si affaccia speranzoso alla vita. E così ecco sgorgare, dalle loro penne, versi di grande bellezza, pieni di dolore e di rabbia, di compassione e di affetto…
Nazim Hikmet, per esempio, ha voluto ricordare la tragedia di Hiroshima – la città del Giappone su cui il 6 agosto 1945 gli americani sganciarono una bomba atomica – proprio con le parole di una bambina. Nato nel 1902 a Salonicco, Hikmet è vissuto per parecchio tempo a Mosca; nel 1928 si è trasferito in Turchia, dove si è dedicato al giornalismo, al teatro e al cinema. Nel 1938 è stato condannato a ventotto anni di carcere per propaganda comunista e opposizione al regime; le pressioni internazionali hanno determinato la sua liberazione dopo dodici anni di reclusione. Nel 1950 ha ricevuto il premio Nobel per la pace; è morto a Mosca nel 1963. Le sue opere sono state tradotte in più di cinquanta lingue.
Hikmet parte da una certezza: i bambini dovrebbero essere sempre felici e mangiare lo zucchero. Dovrebbero, perchè invece la guerra li uccide e distrugge per sempre i loro semplici sogni, come ci racconta La bambina di Hiroshima…
1Apritemi sono io…
busso alla porta di tutte le scale
ma nessuno mi vede
perché i bambini morti nessuno riesce a vederli.
5Sono di Hiroshima e là sono morta
tanti anni fa. Tanti anni passeranno.
Ne avevo sette, allora: anche adesso ne ho sette
perché i bambini morti non diventano grandi.
Avevo dei lucidi capelli, il fuoco li ha strinati 1,
10avevo dei begli occhi limpidi, il fuoco li ha fatti di vetro.
Un pugno di cenere, quella sono io
poi il vento ha disperso anche la cenere.
Apritemi; vi prego non per me
perché a me non occorre né il pane né il riso:
15non chiedo neanche lo zucchero, io:
a un bambino bruciato come una foglia secca non serve.
Per piacere mettete una firma,
per favore, uomini di tutta la terra
firmate, vi prego, perché il fuoco non bruci i bambini
20e possano sempre mangiare lo zucchero.
Da N. Hikmet, Poesie, Editori Riuniti, Roma
1Apritemi sono io…
busso alla porta di tutte le scale
ma nessuno mi vede
perché i bambini morti nessuno riesce a vederli.
5Sono di Hiroshima e là sono morta
tanti anni fa. Tanti anni passeranno.
Ne avevo sette, allora: anche adesso ne ho sette
perché i bambini morti non diventano grandi.
Avevo dei lucidi capelli, il fuoco li ha strinati1,
10avevo dei begli occhi limpidi, il fuoco li ha fatti di vetro.
Un pugno di cenere, quella sono io
poi il vento ha disperso anche la cenere.
Apritemi; vi prego non per me
perché a me non occorre né il pane né il riso:
15non chiedo neanche lo zucchero, io:
a un bambino bruciato come una foglia secca non serve.
Per piacere mettete una firma,
per favore, uomini di tutta la terra
firmate, vi prego, perché il fuoco non bruci i bambini
20e possano sempre mangiare lo zucchero.
Da N. Hikmet, Poesie, Editori Riuniti, Roma
La bambina che pronuncia questi versi non ha un nome, perché possa rappresentare la voce di tutti i bambini che, come lei, furono vittime della tragedia di Hiroshima. Per questo non si può non pensare, tra gli altri, alla piccola Sadako Sasaki, che nacque a Hiroshima il 7 gennaio 1943. Il giorno in cui scoppiò la bomba atomica Sadako aveva poco più di due anni: l’esplosione la scaraventò fuori di casa, ma restò miracolosamente illesa.
A 11 anni Sadako scoprì di essere malata di leucemia, una delle patologie più frequentemente indotte dall’esposizione alle radiazioni della bomba. Mentre si sottoponeva alle cure in ospedale, un’amica le raccontò una leggenda: se fosse riuscita a creare 1000 gru con l’origami, l’arte giapponese di piegare la carta, avrebbe visto avverarsi tutti i suoi desideri.
Quando morì, il 25 ottobre 1955, Sadako aveva realizzato 644 gru. I suoi amici hanno voluto ricordarla con un monumento che si trova nel Parco della pace di Hiroshima, inaugurato nel 1955, in cui si legge: “Questo è il nostro grido. Questa è la nostra preghiera. Pace nel mondo”2.
In questa poesia, dunque, una bambina che vuole ricordare Sadako (e le altre vittime innocenti della guerra) bussa alla porta di tutte le scale. Ella chiede di aprire – per ben due volte, con un’anafora – agli uomini di tutta la terra. Questi uomini (che, citati indirettamente già nella prima strofa, compaiono in modo diretto nell’ultima) non riescono però a vederla, perché i bambini morti nessuno riesce a vederli.
La bambina prova allora a presentarsi, raccontando la sua breve vita per mezzo di immagini, spesso di tipo oppositivo: è morta bruciata a sette anni a Hiroshima, dove è nata, e ora di lei non resta nulla, perché il fuoco, che ha fatto scempio del suo corpo, l’ha ridotta a un mucchietto di cenere disperso dal vento. Per questo non le serve nulla di tutto ciò che attiene alla vita (pane e riso, per il sostentamento, e zucchero, per renderla più dolce): quello che le serve è solo una firma, che possa allungare la petizione di tutti gli uomini che ricusano la guerra e amano la pace, metaforicamente rappresentata dalla parola zucchero, che chiude la lirica con una dolce nota di speranza.
La poesia di Hikmet è strutturata come un’accorata preghiera, a cui è difficile restare indifferenti: gli spazi bianchi che separano le strofe creano dei momenti di silenzio che invitano il lettore a soffermarsi su quanto ha appena sentito e a meditare sul messaggio che la bambina vuole fargli pervenire. L’importanza di questo messaggio è tale che il poeta si esprime, per poter essere compreso da tutti, con un linguaggio facile e piano: di qui la scelta di utilizzare, tra le figure retoriche, quella più semplice, la similitudine (un bambino bruciato come una foglia secca).
In un’altra sua celebre poesia, intitolata Nasceranno da noi uomini migliori, Hikmet scrive:
sarà migliore
di chi è nato
dalla terra,
5dal ferro e dal fuoco.
sarà migliore
di chi è nato
dalla terra,
5dal ferro e dal fuoco.
La terra, il ferro e il fuoco sono, come sempre accade nella poesia, parole polisemiche: esse alludono infatti alla morte, che ha coperto di terra i corpi di chi ha perso la vita in guerra, vittima del ferro (una metonimia per indicare le armi) e del fuoco. Hikmet si augura, proprio come nella chiusa della lirica che ha per protagonista la bambina di Hiroshima, che le generazioni che hanno vissuto la guerra possano essere migliori delle precedenti, avendo sperimentato sulla propria pelle gli orrori di cui essa è capace.
Anche Primo Levi coltiva nel cuore la speranza che chi ha visto la guerra e ha conosciuto le persecuzioni possa diventare un prezioso testimone ed educare le generazioni future. Levi nacque nel 1919 a Torino, in una famiglia della ricca borghesia ebraica. Nel 1941 si laureò in chimica; allo scoppio della seconda guerra mondiale decise di entrare a far parte delle formazioni partigiane che militavano in Valle d’Aosta. Catturato dai tedeschi, fu internato nel campo di concentramento di Auschwitz: la sua laurea in chimica in qualche modo gli salvò la vita, perché gli consentì di lavorare in una fabbrica, con condizioni di detenzione decisamente migliori di quelle degli altri sfortunati con cui condivideva la prigionia. Il ricordo di questa terribile esperienza di vita è alla base di tutti i suoi romanzi: Se questo è un uomo (uscito nel 1947), La tregua (del 1963), vincitore del prestigioso premio letterario “Campiello”, Se non ora, quando? (del 1982) e I sommersi e i salvati (del 1986). Nel 1987 l’esperienza vissuta, mai del tutto superata, lo ha spinto al suicidio.
Levi, prigioniero nel campo di concentramento di Auschwitz dal febbraio 1944 al gennaio 1945, ha affidato il ricordo di questa terribile esperienza non solo ai suoi romanzi, ma anche a una poesia, scritta il 10 gennaio 1946 e intitolata Shemà – che in ebraico significa “ascolta” -, che impone agli uomini di non dimenticare mai quanto è successo.
1Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
5considerate se questo è un uomo,
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no 3.
10Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza per ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo 4
come una rana d’inverno.
15Meditate che questo è stato 5:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi:
20ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi 6.
Da P. Levi, Ad ora incerta, Garzanti, Milano
1Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
5considerate se questo è un uomo,
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no 3.
10Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza per ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo 4
come una rana d’inverno.
15Meditate che questo è stato 5:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi:
20ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi 6.
Da P. Levi, Ad ora incerta, Garzanti, Milano
Il modo in cui Levi si rivolge a chi lo ascolta è decisamente diverso da quello accorato utilizzato dalla bambina di Hikmet: Levi impone imperiosamente a chi vive in una condizione di appagante serenità quotidiana (descritta nella prima strofa e metaforicamente rappresentata dal calore delle case e dei cibi) di confrontarsi con la realtà di chi ha conosciuto una prigionia che affida la vita al capriccio di un soldato, che impone lavori umilianti e faticosi, che alimenta con un tozzo di pane, per cui si deve litigare. Una condizione, questa, così inumana da spingere le donne, rasate a zero e spogliate – oltre che della loro femminilità – anche della propria identità, a prendere la decisione di tenere freddo il grembo come una rana d’inverno. La contrapposizione con il calore della prima strofa emerge con la forza di un pugno nello stomaco proprio da questo paragone implicito, che trova, nel paragone esplicito con una rana in letargo o stecchita dal freddo, il suo compimento, richiamando alla mente del lettore forti immagini di morte.
Quanto detto è successo davvero: lo dimostra anche la scelta di utilizzare i dimostrativi questo e questa, che avvicinano al lettore l’uomo e la donna prigionieri nel campo di concentramento per renderli vivi e presenti ai suoi occhi.
Da qui la necessità che tutto ciò non si ripeta mai più. L’estrema importanza di questo messaggio legittima non solo le scelte lessicali che attengono al campo semantico del comando, l’insistenza su alcuni termini mediante la figura retorica dell’anafora (senza… senza… senza…, per sottolineare le privazioni), la prevalenza di suoni aspri e duri (come le consonanti s,r,t) e l’uso del modo imperativo (considerate, meditate, scolpite, ripetete, in una sorta di climax ascendente), ma anche la maledizione per chi non lo diffonderà e, soprattutto, per chi non lo insegnerà ai propri figli. Questa maledizione si leva da lontano, dalla notte dei tempi, perché si ispira ad alcuni versetti del libro biblico del Deuteronomio (Deut. 6, 4-7 e 11,13-21) che sono alla base di una delle preghiere più importanti dell’ebraismo, lo Shemà, “ascolta”, titolo che non a caso Levi ha scelto per questa poesia. È di fondamentale importanza, dunque, che tutti ascoltino le sue parole e che lo facciano soprattutto gli adulti, perché se è vero che la guerra distrugge e uccide tutto e tutti, è anche vero che i bambini sono gli unici a cui si può affidare la speranza che, divenuti loro malgrado testimoni dell’orrore, facciano in modo che esso non si ripeta mai più in quel futuro che appartiene a loro e che la Storia deve proteggere con i suoi insegnamenti. Per questo gli adulti dovranno ripetere loro con forza queste parole, stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi: la scelta del gerundio, che astrae le azioni dal tempo rendendole eterne, e dell’enumerazione, che non concede tregue, sottolinea con forza l’urgenza e la perentorietà di questo messaggio.
Non è certamente un caso, del resto, che in un testo poetico di andamento prosastico e privo di rime, siano presenti due assonanze cariche di significato: pace-pane, che rimanda alla possibilità di vedere fiorire la vita, metaforicamente rappresentata dal pane, solo dove c’è la pace, e, soprattutto, parole-cuore, perché, se le parole del poeta riusciranno a scalfire il duro cuore degli uomini con il dolore di cui si fanno portavoce, forse, per loro, ci sarà ancora una speranza…
Note
1. Strinati: bruciacchiati.
2. La storia di Sadako è raccontata dallo scrittore austriaco Karl Bruckner (1906 -1985) in un famoso romanzo intitolato Il gran sole di Hiroshima.
3. Per un … no: i monosillabi pronunciati da un soldato, quando, durante le eliminazioni giornaliere, i più deboli e i malati erano mandati alle camere a gas.
4. Vuoti… grembo: con gli occhi che non vogliono più guardare e con il grembo che non vuole più partorire, in modo da non generare altra sofferenza.
5. È stato: è realmente accaduto.
6. O… voi: oppure vi crolli la casa, vi colpisca una malattia invalidante, i vostri figli vi rinneghino.
Testo evidenziato in ORANGE #ff6600
Testo evidenziato in RED #ff0000
Testo evidenziato in GOLD #cc9f3c
Testo evidenziato in BROWN #993300
Testo ATTENZIONE in BLUE #0000ff
Testo in grassetto in BLACK #000000
? in GREEN #008000
CARATTERI SPECIALI USATI
→
↔
♦
ESEMPIO NUMERO APICE per le note, didascalie:
yeahhh<span style=”vertical-align: super; font-size: 15px;”>1</span>
yeahhh1
A chiusura di citazione testuale = testo ridimensionato con style=”font-size: 0.75em; text-align: right;
Da Carlo Manzoni, Il signor Veneranda, Rizzoli, Milano, 1949
ESEMPIO CON HEADER3
… sull’immagine o sul logo1,
Il signor Veneranda passeggia fischiettando; un tizio si affaccia a una finestra e chiede se per caso sia senza chiave. Da questo semplice spunto quotidiano Manzoni trae il materiale per creare un dialogo in cui le domande e le risposte, scollegate da ciò che precede e segue, sono, come detto, perfettamente logiche, consequenziali e sensate: una volta riconnesse le une alle altre, esse creano però un paradosso1 e arrivano addirittura al parossismo2 della scena finale, in cui il signor Veneranda si allontana risentito e brontolando tra sé e sé. Del resto Veneranda ha tutte le ragioni: l’inquilino del terzo piano non gli ha chiesto se vuole entrare, ma se è senza chiave. Che cosa avrebbe dovuto rispondere il povero signor Veneranda, se non “sì”?
La sua dialettica inattaccabile e la sua logica annientano qualsiasi obiezione di chi ha la sfortuna di avere a che fare con lui, come il povero cameriere di un altro racconto…
“Vorrei un caffè…”
Glielo faccio subito, si affrettò il cameriere.
“Mi fa subito cosa?”.
“Il caffè che ha appena ordinato”.
“Io non ho ordinato un bel niente. Ho semplicemente detto che vorrei un caffè, come semplice desiderio, ma non posso prenderlo, perché mi fa male al cuore, ha capito?”.
E se ne andò via imprecando contro i camerieri imbecilli.
Da Carlo Manzoni, Il signor Veneranda, Rizzoli, Milano, 1949
Note
1. Il termine paradosso – che nella forma paradossa, poi decaduta, compare nella nostra lingua dalla prima metà del 1500 – deriva dal greco παράδοξος (parádoksos), composto dalla preposizione παρά (pará), “contro”, e il sostantivo δόξα (dóksa), “opinione”. Viene usato per indicare un’affermazione o una tesi che, nonostante sia contraria all’esperienza comune, al buon senso e alla verosimiglianza per il suo contenuto o per la forma in cui è espressa, si rivela apparentemente fondata e condivisibile. Proprio per questo esso risulta audace e sorprendente.
Il paradosso è spesso usato in letteratura per esasperare affermazioni e situazioni, alla ricerca di un effetto comico.
2. Il termine parossismo, che compare nella nostra lingua fin dalla metà del 1300, deriva dal greco παροξυσμός (paroksusmόs), che significa “aumento, eccitazione”. Esso indica una condizione di eccitazione emotiva, determinata da una forte tensione psicologica o da un eccesso di nervosismo.

CONFERIRE
Questo verbo (che deriva da uno dei composti del verbo latino ferre e che è usato nella nostra lingua dal 1300) si utilizza spesso per indicare l’attribuzione di un titolo onorifico, di un premio o di un riconoscimento (per esempio conferire la carica). Esso però ha, tra le altre, anche due importanti sfumature di significato che purtroppo si stanno perdendo:
1. avere un colloquio, soprattutto se di una certa importanza (per esempio: Vorrei conferire con il Ministro, perché nell’ambito politico questo verbo risulta decisamente più adatto, come forma di rispetto per l’autorità in questione, di uno scontato parlare);
2. raccogliere in uno stesso luogo (per esempio: Il giovedì sera bisogna conferire gli sfalci verdi nella piazzetta Pertini), significato in cui esso subisce la concorrenza dei verbi radunare e ammassare.
Analisi del testo
METRO: senario giambico
In trivio: complemento di stato in luogo. Come detto, il sostantivo trivium indica il luogo in cui si incontrano tre strade (esso deriva, infatti, dall’avverbio ter e il sostantivo via); in senso traslato indica semplicemente una strada pubblica in cui si incontrano molte persone, non sempre perbene. Di qui l’aggettivo triviale.
Lavori in corso…


Il termine Medioevo nasce da una particolare prospettiva storica: quando l’Umanesimo-Rinascimento prese coscienza di sé come rinnovamento delle glorie artistiche greco-romane, il periodo situato tra la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (avvenuta nel 476 d.C. con la deposizione da parte del barbaro Odoacre dell’imperatore Romolo Augustolo) e il sorgere della fiducia nel rinnovamento della cultura classica (metà del 1300) – o, per altri, la scoperta dell’America (1492) – fu considerato transitorio e sprezzantemente definito “età di mezzo”.
Risulta immediatamente chiara l’opinabilità di questo nome: tutte le età sono storicamente “di transizione” poiché appaiono piene e perfette soltanto quelle che, al di fuori di una precisa considerazione storica, sono assunte come esemplari per mere ragioni pratiche (cosa che succede spesso, per esempio, con il Rinascimento, che fu comunque ricco di problemi e di contraddizioni).
La valutazione del Medioevo nel tempo è stata, in realtà, sia negativa che positiva.
Secondo gli umanisti nel Medioevo furono abbandonati gli studi filosofici e retorici, gli unici che potevano, a parer loro, rendere civili un uomo e un’epoca: di qui la presentazione del Medioevo come un periodo di oscurantismo e di barbarie, anche perché esso, caratterizzato dall’affermazione dell’autorità della Chiesa e della religione, considerava la vita terrena come una fase di passaggio alla vita dell’anima, ritenuta la vera vita, svalutando, di conseguenza, ogni esperienza terrena. Questa opinione è però oggi considerata priva di attendibilità, perché è stato dimostrato che l’interesse per la cultura classica non venne mai meno, nemmeno nei secoli più bui.
Sono però gli illuministi a creare il vero mito negativo del Medioevo: secondo loro il Medioevo è infatti la notte dei tempi, un periodo dominato dall’ignoranza e dalla superstizione, naturali conseguenze dell’abbandono della razionalità e dell’asservimento alla religione.
Nel travaglio del Medioevo i romantici vedono, al contrario, il germinare di un’attività politica, culturale e letteraria che caratterizzerà i secoli successivi. Il Medioevo non è perciò per loro un’età “di mezzo”, ma il punto di partenza di una nuova storia e di una nuova civiltà, quella delle moderne nazioni europee: anche questa visione ha però finito con il diventare un topos, cioè un’immagine idealizzata.
La visione più vicina alla realtà storica è stata elaborata nella seconda metà dell’Ottocento sulla base degli studi economici e sociali del Positivismo, corrente di pensiero filosofico che ha mostrato l’esigenza di ricavare dei contributi per la storia della cultura da tutti i documenti legati alle manifestazioni della vita della società, per esempio sul piano civile, religioso e diplomatico. Quest’approccio ha permesso di soffermare l’attenzione su alcuni aspetti rilevanti del Medioevo, che, pur essendo un’epoca caratterizzata da grandi difficoltà, manifesta anche alcuni elementi indubbiamente positivi, in particolare la continuità della tradizione letteraria dagli ultimi secoli dell’Impero fino all’inizio dell’Umanesimo e una sostanziale unità culturale.
Il Medioevo è convenzionalmente diviso in Alto e Basso Medioevo, ma tra i due momenti ci fu, in realtà, una forte continuità: tale suddivisione è stata infatti creata solo per comodità didattica.
Alto Medioevo (dal 476 al 1000 circa)
Durante l’Alto Medioevo l’Europa è oggetto di incursioni e di assedi da parte dei popoli barbari. In Italia nella primavera del 568 arrivano, partendo dalla pianura del Danubio, i Longobardi, che riescono in breve a conquistare buona parte del nostro territorio, che si ritrova così diviso in due: essi si stanziano infatti nel centro-nord, ponendo la loro capitale a Pavia, mentre i Greci dell’Impero bizantino continuano a occupare il centro-sud.
In questo periodo l’agricoltura è ferma, la produttività scarsa, i commerci ridotti; ci sono conflitti tra le aristocrazie degli invasori e quelle superstiti degli antichi senatori romani. I barbari sono inoltre refrattari al contatto con la cultura classica, cosa che determina una forte regressione anche dal punto di vista culturale.
La vita cittadina, che si era andata illanguidendo già dopo la caduta dell’Impero romano, subisce da questa situazione un ulteriore colpo: le città si spopolano del tutto (con poche eccezioni, costituite da Pavia, Verona, Ravenna e Roma); il sistema socioeconomico si basa ora sulla curtis, formata da un fondo agricolo dominante (la pars dominica) a cui si uniscono altri terreni (la pars massaricia) dati da coltivare ai coloni, che ricevono protezione e mantenimento in cambio del loro lavoro e del versamento di canoni di affitto. Questa struttura è improntata sul criterio dell’autosufficienza, per supplire alla quasi totale mancanza di scambi commerciali (le strade sono o impraticabili – perché distrutte dalle guerre – o estremamente pericolose, per la presenza di briganti).
Nell’‘800 con Carlo Magno (742 – 814) si verifica la cosiddetta rinascita carolingia, che determina una parziale riorganizzazione delle strutture civili e dell’economia agricola: è però solo nel IX e X secolo che, con il Feudalesimo, si assiste a una vera e propria ristrutturazione della vita sociale.
L’aspetto più significativo di questo periodo è senza dubbio il ruolo della Chiesa, che occupa ben presto il posto lasciato vacante dall’Impero romano, anche perché dal 380, con l’Editto di Tessalonica, voluto dall’imperatore Teodosio, il cristianesimo era diventato religione di stato. Tra la devastazione provocata dalle invasioni barbariche e l’autarchia delle curtis gli unici luoghi ad avere ancora una certa funzione sociale e a svolgere attività di coordinamento sono infatti i centri monastici, sorti numerosi per volontà di S. Benedetto da Norcia (480 – 545): meritano di essere ricordati Montecassino, fondato nel 529 da S. Benedetto, e Bobbio, sorto nel 614 nei pressi di Piacenza ad opera del monaco irlandese S. Colombano.
Al contrario di quanto accade nei monasteri orientali, in cui i religiosi si dedicano quasi esclusivamente alla preghiera e alla contemplazione, nei monasteri occidentali si segue il principio benedettino dell’ora et labora (“prega e lavora”): tra gli impegni quotidiani dei monaci ci sono la preghiera, il canto, lo studio della materia biblica (la cosiddetta lectio divina, cioè la lettura che si fa preghiera) e l’ascolto di narrazioni sacre, come le vite dei santi; ma accanto a queste attività trovano spazio anche la coltivazione di terreni – spesso abbandonati o impervi -, l’aiuto offerto ai più deboli e, soprattutto, la conservazione dei testi classici mediante copiatura. Di questo compito sono incaricati i chierici1 detti amanuensi: il loro lavoro, compiuto negli scriptoria dei monasteri, è stato da un lato preziosissimo per la conservazione dei testi, ma dall’altro ne ha determinato anche la corruzione per le frequenti interpolazioni dettate dalla forte religiosità di questi uomini.
La Chiesa del periodo esercita però, accanto a queste funzioni positive, anche un pesante condizionamento del modo di vivere dell’uomo, effettuato con la paura determinata da una visione di Dio non pacifica e gioiosa, ma terribile e vendicativa (certamente aiutata dalla presenza di pestilenze, carestie e invasioni).
IL LATINO MEDIOEVALE (O MEDIOLATINO)
Per tutto l’Alto Medioevo (e anche nei secoli seguenti) continua l’uso del latino scritto, un latino illustre usato – soprattutto da chierici e notai – in opere letterarie, atti pubblici, relazioni ufficiali, epistolari…
Questo latino
- non è più quello dell’età classica, perché adotta costrutti sintattici nuovi e termini linguistici propri del Basso Impero
- resta sostanzialmente uguale dal VI al XIV secolo.
Contemporaneamente comincia a diffondersi anche un latino parlato, in forma diversa da una regione all’altra e dall’una all’altra epoca: proprio per questo esso è in continua evoluzione.
LA LETTERATURA LATINA MEDIOEVALE
La storia della letteratura latina medioevale in Italia inizia alla corte del re ostrogoto Teodorico (454 – 526), che mantiene in vita istituzioni culturali legate al modello romano.
I suoi rappresentanti più illustri sono Severino Boezio e Aurelio Cassiodoro, eredi dell’aristocrazia imperiale cristianizzata. Entrambi hanno vivo il senso della tradizione antica e dimostrano il suo perdurare all’interno della nuova compagine romano-barbarica, anche se risulta evidente l’assoggettamento del pensiero classico alla spiritualità cattolica.
SEVERINO BOEZIO (480 – 526)
Dopo aver superato le tappe del cursus honorum romano (la successione ordinata delle magistrature e delle cariche stabilita nell’antica Roma), nel 510 diventa console e successivamente consigliere e ministro di Teodorico; sospettato di tradimento, è però imprigionato e ucciso.
La sua opera più celebre è il De consolatione philosophiae (La consolazione della filosofia), cinque libri misti di prosa e di versi in cui egli racconta come la filosofia lo abbia consolato durante la sua ingiusta prigionia. Boezio, conciliando la morale classica e la dottrina cristiana, volge il concetto platonico del dio creatore a un senso del divino intimamente cristiano e ricerca la salvezza nella fede in Dio.
TESTO: Apparizione della filosofia
Da ricordare anche le sue numerose traduzioni dei filosofi greci, in particolare di Aristotele.
AURELIO CASSIODORO (490 ca – 583)
Discendente da una nobile famiglia, soggiorna alla corte dei Goti di re Teodorico, percorrendo una prestigiosa carriera amministrativa; attorno al 540, dopo essersi ritirato a vita privata, fonda il cenobio (una comunità eremitica) di Vivarium (in Calabria), dove si dedica all’attività letteraria.
La sua opera più celebre è costituita da dodici libri di Variae (Varie), che raccolgono cinquecento lettere scritte per conto del re dei Goti, importanti sia come documento storico sia come esempio dello stile ricercato che caratterizza l’epistolografia medioevale.
Cassiodoro separa per primo gli stili di scrittura: per gli uomini del Medioevo, infatti, ogni stile deve corrispondere non solo alla materia trattata, ma anche al destinatario cui ci si rivolge. In realtà questa suddivisione era già presente nell’epoca classica, per esempio nella Rethorica ad Herennium (Retorica a Erennio), il più antico trattato sull’arte del dire che ci è pervenuto: esso, databile attorno al 90 a.C., è stato da alcuni attribuito a Cicerone. Cassiodoro suddivide gli stili in sommo, medio e umile, una distinzione che sarà ripresa anche da Dante Alighieri nella sua Commedia.
TESTO: La suddivisione degli stili
La letteratura latina medioevale dà buone prove di sé anche in ambito storico, dove spiccano le figure di Paolo Diacono e di Liutprando.
PAOLO DIACONO (720 ca – 799)
Monaco cassinese, longobardo di nascita, vive e insegna grammatica alla corte di Carlo Magno; è autore di numerose opere in prosa o in versi, tra cui merita di essere menzionata l’Historia Longobardorum (Storia dei Longobardi), che si eleva sulle rozze cronache storiche precedenti per vigore di scrittura e per accuratezza stilistica. Essa rappresenta anche un notevole momento di integrazione tra cultura germanica e tradizione latina.
TESTO: La morte di Alboino
LIUTPRANDO (922 ca – 971)
Longobardo di origine, vescovo di Cremona, vive prima alla corte di Ugo di Provenza e poi in quella di Berengario II, a Pavia, per cui svolge incarichi diplomatici: proprio la rottura dei rapporti con quest’ultimo costituisce l’occasione per la stesura dell’ Antapodosis (Contraccambio di offese), una storia d’Italia in prosa e in versi che copre il periodo che va dall’888 al 950.
Liutprando dimostra di avere una buona conoscenza dei classici e del greco, una discreta esperienza di retorica, e, nonostante il continuo intervento di Dio sui fatti, una certa consapevolezza della realtà terrena.
Basso Medioevo (dal 1000 al 1400 circa)
Durante questo periodo l’agricoltura ha un notevole miglioramento, grazie all’impiego di attrezzi più robusti e di nuove tecniche di lavorazione della terra (per esempio la costruzione di canali, la diffusione dell’aratro pesante, la ferratura degli zoccoli e la bonifica di territori paludosi).
Il conseguente aumento demografico e la ripresa dei traffici commerciali (quest’ultima dovuta al surplus della produzione) determinano una rifioritura della città, che amplia la sua cinta muraria e diventa mercato e centro di produzione artigianale. Questo sviluppo della civiltà urbana e mercantile è particolarmente forte in Italia, dove nasce il comune, che tra il secolo XII e il XIII si libera per gradi del controllo dell’autorità imperiale e dei poteri feudali. In origine la città era infatti controllata da oligarchie di piccoli feudatari che ricevevano numerosi privilegi dall’imperatore, per conto del quale la amministravano; nei comuni, soprattutto del Nord, si sviluppano però col tempo diverse corporazioni di commercianti e artigiani (chiamate arti) e micropoteri che richiedono a gran voce la possibilità di governare e di amministrare autonomamente la città. Nel X secolo la popolazione della città è già suddivisa in oratores (quelli che pregano, i sacerdoti), bellatores (coloro che fanno la guerra) e laboratores (che lavorano la terra).
Il rinnovamento economico e sociale comporta un miglioramento anche dal punto di vista culturale, soprattutto grazie alle scuole capitolari, che sorgono accanto alle cattedrali per i bisogni dell’amministrazione vescovile e per gli oblati, coloro che intendevano farsi chierici. Esse hanno dunque uno scopo pratico e sono affidate a ecclesiastici e a chierici, che hanno una formazione non solo religiosa e teologica ma anche profana e classica.
Attorno all’XI secolo questi interessi culturali cominciano a coinvolgere anche i laici, ovviamente appartenenti alle classi dominanti (in particolare i figli cadetti – cioè non primogeniti – delle famiglie nobili). Da questa richiesta nascono le prime università, la Scuola medica salernitana (in realtà già attiva nell’VIII secolo) e l’università di Bologna (1088): quest’ultima era gestita da una corporazione di studenti (circa 2000) che pagavano i professori, spesso chierici vagantes, cioè senza fissa dimora. Sull’esempio di queste prime università nasceranno, dai secoli XII e XIII, altri atenei: per esempio l’università di Padova, nel 1222, e quella di Napoli nel 1224.
Nelle università si studiano le arti liberali, cioè le discipline prive di finalità pratiche che sono proprie dell’uomo libero: Marziano Capella (un erudito vissuto a cavallo tra i secoli IV e V) le aveva organizzate, nel suo poema intitolato De nuptiis Philologiae et Mercuri (Le nozze di Filologia e di Mercurio), in Trivio (grammatica, retorica e dialettica2) e Quadrivio (aritmetica, geometria, musica3, astronomia).
A queste discipline si aggiungono, dall’XI secolo, il diritto e la medicina; non trovano posto, invece, la scultura, l’architettura e la pittura, disprezzate perché attività manuali.
Poiché il latino letterario non è più parlato ma studiato solo a scuola, il suo apprendimento avviene per mezzo di manuali scolastici, come quelli di Elio Donato (vissuto verso la metà del IV secolo e autore di una delle più celebri grammatiche del tempo, l’Ars Minor, che insegna le parti del discorso con domande e risposte) e di Prisciano (che vive nella prima metà del VI secolo).
Note
1. Il termine chierico nel Medioevo indicava non un vero e proprio sacerdote, ma un individuo che ricopriva uffici ecclesiastici e che riceveva, in cambio, pagamenti e sovvenzioni: il chierico era, dunque, un intellettuale ecclesiastico.
2. La dialettica (o logica) è la scienza teorica pura che studia i procedimenti attraverso cui si sviluppa il ragionamento, come, per esempio, il sillogismo (strutturato in premessa maggiore, premessa minore e logica conclusione).
3. La musica è considerata parte del Quadrivio perché, secondo la concezione elaborata dal filosofo greco Platone, vissuto nel V secolo a. C., è ritenuta in connessione con la matematica, in quanto studio di rapporti numerici.

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Il termine Medioevo nasce da una particolare prospettiva storica: quando l’Umanesimo-Rinascimento prese coscienza di sé come rinnovamento delle glorie artistiche greco-romane, il periodo situato tra la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (avvenuta nel 476 d.C. con la deposizione da parte del barbaro Odoacre dell’imperatore Romolo Augustolo) e il sorgere della fiducia nel rinnovamento della cultura classica (metà del 1300) – o, per altri, la scoperta dell’America (1492) – fu considerato transitorio e sprezzantemente definito “età di mezzo”.
La valutazione del Medioevo nel tempo è stata, in realtà, sia negativa che positiva.
Secondo gli umanisti nel Medioevo furono abbandonati gli studi filosofici e retorici, gli unici che potevano, a parer loro, rendere civili un uomo e un’epoca: di qui la presentazione del Medioevo come un periodo di oscurantismo e di barbarie, anche perché esso, caratterizzato dall’affermazione dell’autorità della Chiesa e della religione, considerava la vita terrena come una fase di passaggio alla vita dell’anima, ritenuta la vera vita, svalutando, di conseguenza, ogni esperienza terrena. Questa opinione è però oggi considerata priva di attendibilità, perché è stato dimostrato che l’interesse per la cultura classica non venne mai meno, nemmeno nei secoli più bui.
Sono però gli illuministi a creare il vero mito negativo del Medioevo: secondo loro il Medioevo è infatti la notte dei tempi, un periodo dominato dall’ignoranza e dalla superstizione, naturali conseguenze dell’abbandono della razionalità e dell’asservimento alla religione.
Nel travaglio del Medioevo i romantici vedono, al contrario, il germinare di un’attività politica, culturale e letteraria che caratterizzerà i secoli successivi. Il Medioevo non è perciò per loro un’età “di mezzo”, ma il punto di partenza di una nuova storia e di una nuova civiltà, quella delle moderne nazioni europee: anche questa visione ha però finito con il diventare un topos, cioè un’immagine idealizzata.
La visione più vicina alla realtà storica è stata elaborata nella seconda metà dell’Ottocento sulla base degli studi economici e sociali del Positivismo, corrente di pensiero filosofico che ha mostrato l’esigenza di ricavare dei contributi per la storia della cultura da tutti i documenti legati alle manifestazioni della vita della società, per esempio sul piano civile, religioso e diplomatico. Quest’approccio ha permesso di soffermare l’attenzione su alcuni aspetti rilevanti del Medioevo, che, pur essendo un’epoca caratterizzata da grandi difficoltà, manifesta anche alcuni elementi indubbiamente positivi, in particolare la continuità della tradizione letteraria dagli ultimi secoli dell’Impero fino all’inizio dell’Umanesimo e una sostanziale unità culturale.
Il Medioevo è convenzionalmente diviso in Alto e Basso Medioevo, ma tra i due momenti ci fu, in realtà, una forte continuità: tale suddivisione è stata infatti creata solo per comodità didattica.
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Alto Medioevo (dal 476 al 1000 circa)
Durante l’Alto Medioevo l’Europa è oggetto di incursioni e di assedi da parte dei popoli barbari. In Italia nella primavera del 568 arrivano, partendo dalla pianura del Danubio, i Longobardi, che riescono in breve a conquistare buona parte del nostro territorio, che si ritrova così diviso in due: essi si stanziano infatti nel centro-nord, ponendo la loro capitale a Pavia, mentre i Greci dell’Impero bizantino continuano a occupare il centro-sud.
In questo periodo l’agricoltura è ferma, la produttività scarsa, i commerci ridotti; ci sono conflitti tra le aristocrazie degli invasori e quelle superstiti degli antichi senatori romani. I barbari sono inoltre refrattari al contatto con la cultura classica, cosa che determina una forte regressione anche dal punto di vista culturale.
La vita cittadina, che si era andata illanguidendo già dopo la caduta dell’Impero romano, subisce da questa situazione un ulteriore colpo: le città si spopolano del tutto (con poche eccezioni, costituite da Pavia, Verona, Ravenna e Roma); il sistema socioeconomico si basa ora sulla curtis, formata da un fondo agricolo dominante (la pars dominica) a cui si uniscono altri terreni (la pars massaricia) dati da coltivare ai coloni, che ricevono protezione e mantenimento in cambio del loro lavoro e del versamento di canoni di affitto. Questa struttura è improntata sul criterio dell’autosufficienza, per supplire alla quasi totale mancanza di scambi commerciali (le strade sono o impraticabili – perché distrutte dalle guerre – o estremamente pericolose, per la presenza di briganti).
Nell’‘800 con Carlo Magno (742 – 814) si verifica la cosiddetta rinascita carolingia, che determina una parziale riorganizzazione delle strutture civili e dell’economia agricola: è però solo nel IX e X secolo che, con il Feudalesimo, si assiste a una vera e propria ristrutturazione della vita sociale.
L’aspetto più significativo di questo periodo è senza dubbio il ruolo della Chiesa, che occupa ben presto il posto lasciato vacante dall’Impero romano, anche perché dal 380, con l’Editto di Tessalonica, voluto dall’imperatore Teodosio, il cristianesimo era diventato religione di stato. Tra la devastazione provocata dalle invasioni barbariche e l’autarchia delle curtis gli unici luoghi ad avere ancora una certa funzione sociale e a svolgere attività di coordinamento sono infatti i centri monastici, sorti numerosi per volontà di S. Benedetto da Norcia (480 – 545): meritano di essere ricordati Montecassino, fondato nel 529 da S. Benedetto, e Bobbio, sorto nel 614 nei pressi di Piacenza ad opera del monaco irlandese S. Colombano.
Al contrario di quanto accade nei monasteri orientali, in cui i religiosi si dedicano quasi esclusivamente alla preghiera e alla contemplazione, nei monasteri occidentali si segue il principio benedettino dell’ora et labora (“prega e lavora”): tra gli impegni quotidiani dei monaci ci sono la preghiera, il canto, lo studio della materia biblica (la cosiddetta lectio divina, cioè la lettura che si fa preghiera) e l’ascolto di narrazioni sacre, come le vite dei santi; ma accanto a queste attività trovano spazio anche la coltivazione di terreni – spesso abbandonati o impervi -, l’aiuto offerto ai più deboli e, soprattutto, la conservazione dei testi classici mediante copiatura. Di questo compito sono incaricati i chierici1 detti amanuensi: il loro lavoro, compiuto negli scriptoria dei monasteri, è stato da un lato preziosissimo per la conservazione dei testi, ma dall’altro ne ha determinato anche la corruzione per le frequenti interpolazioni dettate dalla forte religiosità di questi uomini.
La Chiesa del periodo esercita però, accanto a queste funzioni positive, anche un pesante condizionamento del modo di vivere dell’uomo, effettuato con la paura determinata da una visione di Dio non pacifica e gioiosa, ma terribile e vendicativa (certamente aiutata dalla presenza di pestilenze, carestie e invasioni).
IL LATINO MEDIOEVALE (O MEDIOLATINO)
Per tutto l’Alto Medioevo (e anche nei secoli seguenti) continua l’uso del latino scritto, un latino illustre usato – soprattutto da chierici e notai – in opere letterarie, atti pubblici, relazioni ufficiali, epistolari…
Questo latino
- non è più quello dell’età classica, perché adotta costrutti sintattici nuovi e termini linguistici propri del Basso Impero
- resta sostanzialmente uguale dal VI al XIV secolo.
Contemporaneamente comincia a diffondersi anche un latino parlato, in forma diversa da una regione all’altra e dall’una all’altra epoca: proprio per questo esso è in continua evoluzione.
LA LETTERATURA LATINA MEDIOEVALE
La storia della letteratura latina medioevale in Italia inizia alla corte del re ostrogoto Teodorico (454 – 526), che mantiene in vita istituzioni culturali legate al modello romano.
I suoi rappresentanti più illustri sono Severino Boezio e Aurelio Cassiodoro, eredi dell’aristocrazia imperiale cristianizzata. Entrambi hanno vivo il senso della tradizione antica e dimostrano il suo perdurare all’interno della nuova compagine romano-barbarica, anche se risulta evidente l’assoggettamento del pensiero classico alla spiritualità cattolica.
SEVERINO BOEZIO (480 – 526)
Dopo aver superato le tappe del cursus honorum romano (la successione ordinata delle magistrature e delle cariche stabilita nell’antica Roma), nel 510 diventa console e successivamente consigliere e ministro di Teodorico; sospettato di tradimento, è però imprigionato e ucciso.
La sua opera più celebre è il De consolatione philosophiae (La consolazione della filosofia), cinque libri misti di prosa e di versi in cui egli racconta come la filosofia lo abbia consolato durante la sua ingiusta prigionia. Boezio, conciliando la morale classica e la dottrina cristiana, volge il concetto platonico del dio creatore a un senso del divino intimamente cristiano e ricerca la salvezza nella fede in Dio.
TESTO: Apparizione della filosofia
Da ricordare anche le sue numerose traduzioni dei filosofi greci, in particolare di Aristotele.
AURELIO CASSIODORO (490 ca – 583)
Discendente da una nobile famiglia, soggiorna alla corte dei Goti di re Teodorico, percorrendo una prestigiosa carriera amministrativa; attorno al 540, dopo essersi ritirato a vita privata, fonda il cenobio (una comunità eremitica) di Vivarium (in Calabria), dove si dedica all’attività letteraria.
La sua opera più celebre è costituita da dodici libri di Variae (Varie), che raccolgono cinquecento lettere scritte per conto del re dei Goti, importanti sia come documento storico sia come esempio dello stile ricercato che caratterizza l’epistolografia medioevale.
Cassiodoro separa per primo gli stili di scrittura: per gli uomini del Medioevo, infatti, ogni stile deve corrispondere non solo alla materia trattata, ma anche al destinatario cui ci si rivolge. In realtà questa suddivisione era già presente nell’epoca classica, per esempio nella Rethorica ad Herennium (Retorica a Erennio), il più antico trattato sull’arte del dire che ci è pervenuto: esso, databile attorno al 90 a.C., è stato da alcuni attribuito a Cicerone. Cassiodoro suddivide gli stili in sommo, medio e umile, una distinzione che sarà ripresa anche da Dante Alighieri nella sua Commedia.
TESTO: La suddivisione degli stili
La letteratura latina medioevale dà buone prove di sé anche in ambito storico, dove spiccano le figure di Paolo Diacono e di Liutprando.
PAOLO DIACONO (720 ca – 799)
Monaco cassinese, longobardo di nascita, vive e insegna grammatica alla corte di Carlo Magno; è autore di numerose opere in prosa o in versi, tra cui merita di essere menzionata l’Historia Longobardorum (Storia dei Longobardi), che si eleva sulle rozze cronache storiche precedenti per vigore di scrittura e per accuratezza stilistica. Essa rappresenta anche un notevole momento di integrazione tra cultura germanica e tradizione latina.
TESTO: La morte di Alboino
LIUTPRANDO (922 ca – 971)
Longobardo di origine, vescovo di Cremona, vive prima alla corte di Ugo di Provenza e poi in quella di Berengario II, a Pavia, per cui svolge incarichi diplomatici: proprio la rottura dei rapporti con quest’ultimo costituisce l’occasione per la stesura dell’ Antapodosis (Contraccambio di offese), una storia d’Italia in prosa e in versi che copre il periodo che va dall’888 al 950.
Liutprando dimostra di avere una buona conoscenza dei classici e del greco, una discreta esperienza di retorica, e, nonostante il continuo intervento di Dio sui fatti, una certa consapevolezza della realtà terrena.
Basso Medioevo (dal 1000 al 1400 circa)
Durante questo periodo l’agricoltura ha un notevole miglioramento, grazie all’impiego di attrezzi più robusti e di nuove tecniche di lavorazione della terra (per esempio la costruzione di canali, la diffusione dell’aratro pesante, la ferratura degli zoccoli e la bonifica di territori paludosi).
Il conseguente aumento demografico e la ripresa dei traffici commerciali (quest’ultima dovuta al surplus della produzione) determinano una rifioritura della città, che amplia la sua cinta muraria e diventa mercato e centro di produzione artigianale. Questo sviluppo della civiltà urbana e mercantile è particolarmente forte in Italia, dove nasce il comune, che tra il secolo XII e il XIII si libera per gradi del controllo dell’autorità imperiale e dei poteri feudali. In origine la città era infatti controllata da oligarchie di piccoli feudatari che ricevevano numerosi privilegi dall’imperatore, per conto del quale la amministravano; nei comuni, soprattutto del Nord, si sviluppano però col tempo diverse corporazioni di commercianti e artigiani (chiamate arti) e micropoteri che richiedono a gran voce la possibilità di governare e di amministrare autonomamente la città. Nel X secolo la popolazione della città è già suddivisa in oratores (quelli che pregano, i sacerdoti), bellatores (coloro che fanno la guerra) e laboratores (che lavorano la terra).
Il rinnovamento economico e sociale comporta un miglioramento anche dal punto di vista culturale, soprattutto grazie alle scuole capitolari, che sorgono accanto alle cattedrali per i bisogni dell’amministrazione vescovile e per gli oblati, coloro che intendevano farsi chierici. Esse hanno dunque uno scopo pratico e sono affidate a ecclesiastici e a chierici, che hanno una formazione non solo religiosa e teologica ma anche profana e classica.
Attorno all’XI secolo questi interessi culturali cominciano a coinvolgere anche i laici, ovviamente appartenenti alle classi dominanti (in particolare i figli cadetti – cioè non primogeniti – delle famiglie nobili). Da questa richiesta nascono le prime università, la Scuola medica salernitana (in realtà già attiva nell’VIII secolo) e l’università di Bologna (1088): quest’ultima era gestita da una corporazione di studenti (circa 2000) che pagavano i professori, spesso chierici vagantes, cioè senza fissa dimora. Sull’esempio di queste prime università nasceranno, dai secoli XII e XIII, altri atenei: per esempio l’università di Padova, nel 1222, e quella di Napoli nel 1224.
Nelle università si studiano le arti liberali, cioè le discipline prive di finalità pratiche che sono proprie dell’uomo libero: Marziano Capella (un erudito vissuto a cavallo tra i secoli IV e V) le aveva organizzate, nel suo poema intitolato De nuptiis Philologiae et Mercuri (Le nozze di Filologia e di Mercurio), in Trivio (grammatica, retorica e dialettica2) e Quadrivio (aritmetica, geometria, musica3, astronomia).
A queste discipline si aggiungono, dall’XI secolo, il diritto e la medicina; non trovano posto, invece, la scultura, l’architettura e la pittura, disprezzate perché attività manuali.
Poiché il latino letterario non è più parlato ma studiato solo a scuola, il suo apprendimento avviene per mezzo di manuali scolastici, come quelli di Elio Donato (vissuto verso la metà del IV secolo e autore di una delle più celebri grammatiche del tempo, l’Ars Minor, che insegna le parti del discorso con domande e risposte) e di Prisciano (che vive nella prima metà del VI secolo).